San Vincenzo era un fine osservatore della realtà. Non solo quella esterna, ma anche quella interna dell’animo umano. Egli si rese conto in prima persona che l’azione dello Spirito può coinvolgere l’uomo solo se vi trova una breccia, un punto di debolezza nella corazza del suo orgoglio. E questa breccia è la coscienza del proprio limite. “San Vincenzo – annota H. Brémond – non ha dovuto attendere di essere vecchio per sentire la nullità di tutto… Se ce ne fosse stato bisogno (le sue esperienze) sarebbero state la conferma di quel pessimismo tranquillo ed amabile che costituiva la sua filosofia di vita”. Benché infatti san Vincenzo potesse dirsi una persona riuscita, poiché a partire dai quarant’anni gli fu concesso tutto, fino a poter sedere accanto al cardinal Mazzarino nel Consiglio di Coscienza del Regno di Francia, non si lasciò incantare dal successo. Dio gli concesse la grazia di conservare il buon senso del contadino e di interiorizzare l’esperienza del limite, sicché non dovette fare fatica a riconoscere la nativa debolezza umana. In un momento di acuta percezione di sé e dell’uomo, annotò: “La nostra natura è di essere mendicanti… Siamo poveri e meschini. Abbiamo bisogno di Dio sempre …”. Da questa consapevolezza nascevano alcuni capisaldi del suo insegnamento ai missionari: da una parte, la necessità di vivere nella dimensione più austera la virtù dell’umiltà e, dall’altra, l’abbandono alla Provvidenza, cui deve corrispondere un profondo spirito di povertà.
c.1. Dell’umiltà san Vincenzo fece “il cardine e il fondamento di tutta la vita spirituale”. Ne apprese la forza attraverso l’esperienza personale e la additò come il modo più adatto per immedesimarsi all’umanità di Cristo. Racconta: Nella sua vita breve e mortale Nostro Signore visse in diversi stati. Tutti questi stati sono santi e santificanti, sono tutti adorabili e tutti imitabili. La sua vita, in base a questi diversi stati, hanno suscitato diverse attrattive. Le compagnie che sono nella Chiesa di Dio considerano Nostro Signore diversamente, secondo le varie attrattive della grazia, secondo i lumi e le inclinazioni differenti che a lui è piaciuto dar loro, questa in uno stato, quella in un altro; e così l’onorano e lo imitano in modi diversi. Ora, nella sua bontà e misericordia infinita, non volle darci altra inclinazione ed altra attrattiva che per la sua vita dolorosa, calunniata e disprezzata. Noi dobbiamo attenerci a questo e imitarlo nella sua abiezione, nei suoi obbrobrii, negli oltraggi e nelle persecuzioni che soffrì e nel modo in cui le soffrì, ossia con pazienza e silenzio, e persino con gioia e slancio. Da qui risulta chiara la radice cristologica del suo considerare la virtù. Sarebbe fuorviante – come già osservato, ma merita insistere – riportare i ragionamenti e le esortazioni di san Vincenzo sulle virtù, e in particolare sull’umiltà, ad una radice puramente ascetica. Nell’insegnamento sulla virtù dell’umiltà, troviamo un chiaro esempio della metodica del suo pensiero. Partiva dalla realtà quale egli la esperimentava concretamente e su di essa si interrogava alla luce di Cristo. Così, siccome aveva esperimentato che su questa virtù si facevano tante chiacchiere, inculcava una dottrina che egli aveva trovato in san Bernardo: e cioè che l’umiltà non si apprende se non attraverso la via delle umiliazioni. E così indicava che per apprendere l’umiltà occorre sottoporsi ad una triplice condizione: L’umiltà, che Gesù Cristo ci raccomanda tanto spesso con la parola e con l’esempio e che la Compagnia deve cercare con tutte le sue forze di acquistare, richiede tre requisiti. Il primo è di stimarci con tutta sincerità degni di abiezione. Il secondo è di essere molto contenti che gli altri conoscano i nostri difetti ed abbiano disistima di noi. Il terzo requisito, considerando la nostra miseria, è di nascondere il poco bene che Dio opera in noi e per mezzo nostro e, se non fosse possibile nasconderlo, attribuirlo unicamente alla misericordia di Dio e ai meriti degli altri. Questo è il fondamento di tutta la perfezione evangelica e il cardine di tutta la vita spirituale. Chi avrà questa virtù otterrà facilmente tutte le altre. A chi ne è sprovvisto verranno tolte anche quelle che credeva di avere e sarà tormentato da continui turbamenti. Una dottrina dura e disgustosa, ma assai concreta, che egli non aveva alcun timore a praticare in prima persona. Dalla quale, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non nascevano scompensi psicologici nella persona; anzi la sua pratica generava una maggiore libertà di spirito. Le persone umili – diceva – sono sempre contente, e la loro gioia si riflette sul volto, perché lo Spirito Santo, che risiede in loro, le ricolma di pace, in modo che nulla può turbarle. Se le si contraddice, accondiscendono; se le si calunnia, sopportano; se le si dimentica, pensano che si ha ragione di farlo; se si sovraccaricano di occupazioni, lavorano volentieri, e per quanto un ordine dato sia difficile, vi si applicano volentieri, affidandosi alla virtù della santa obbedienza. Le tentazioni, che a loro sopraggiungono, non servono ad altro che a consolidarle maggiormente nell’umiltà, a farle ricorrere a Dio. Formarsi all’umiltà significava anche, per san Vincenzo, porre le basi della fraternità in una comunità. Senza umiltà, infatti, gli inevitabili contrasti fra persone diverse per carattere, tradizione, inclinazioni e gusti, possono creare ferite e divisioni. E’ l’umiltà, vissuta nella fede, che attutisce le differenze e porta a trasformare le diversità nella ricchezza dello stare insieme fraternamente. Il mezzo migliore per conservare l’unione è l’umiltà. Si provi ad esaminare a fondo la sorgente delle antipatie e dei dissensi e si vedrà che provengono dall’emulazione. Se qualcuno riesce nella predicazione o in altri uffici, se ne compiace, si dà grandi arie di importanza, le spara grosse. Che avviene? Lo si disprezza, lo si umilia, perché un uomo che si esalta è insopportabile; ed ecco un motivo di discordia. Al suo opposto, l’umiliarci, il voler essere reputati come gli ultimi di tutti e, se ci sembra d’essere riusciti in qualcosa, il riconoscere subito la nostra impotenza al bene e la nostra inclinazione al male, ben consapevoli dei nostri difetti: tutto ciò è sorgente di pace e di unione. Ne abbiamo in abbondanza per persuaderci che siamo inclini all’illusione e che siamo capaci di guastare tutto; per considerarci pieni di miseria ed essere ben contenti di venire disprezzati. La buona riputazione e i sentimenti di apprezzamento riserviamoli per il prossimo, mai per noi; i sacerdoti anziani attribuiscano gli uni agli altri la stima e la buona riuscita; i chierici si abbassino gli uni verso gli altri, e i fratelli si assoggettino al più piccolo, secondo il consiglio del capo degli apostoli: Siate sottomessi ad ogni creatura per amor di Dio (1 Pt 2, 13). Allora tutto sarà amabile e ben ordinato.
c.2. Proprio perché aveva scavato in sé una consapevolezza carica di umiltà per il proprio limite, altro pilastro della sua dottrina era la consegna di sé alla paterna volontà di Dio come criterio interpretativo di ogni evento. Anche questo insegnamento lo traeva dal modo di vivere di Gesù, nel quale tutto si svolgeva alla presenza del Padre. La perdita della fortuna, uno stato di malattia o di contraddizione, di noia o di aridità, vengono assolutamente dalla volontà di Dio. … Questo stato, che viene dalla volontà divina, dobbiamo accettarlo, qualunque esso sia, e rassegnarci al beneplacito di Dio, per soffrire tutto quello che egli vorrà, come e per quanto tempo vorrà. E’ questa, fratelli, la grande lezione del Figlio di Dio! Quelli che l’ascoltano e se ne lasciano penetrare il cuore, appartengono alla prima classe nella scuola di questo divino Maestro. Quanto a me, non conosco nulla di più santo, né di più perfetto di tale consegna di sé: essa porta ad un pieno spogliamento di se stessi e ad una vera indifferenza di fronte a qualunque condizione ci veniamo a trovare. Pertanto, il rapporto con il Mistero, che fa tutte le cose e le conduce, è la bussola che deve orientare un missionario nel labirinto della vita. Fratelli miei, chiediamo alla divina Bontà una grande fiducia per tutto quello che ci capita. Se gli siamo fedeli, non ci mancherà nulla. Vivrà Lui stesso in noi, ci condurrà, ci difenderà e ci amerà. Quello che diremo, quello che faremo, tutto gli sarà gradito. A guidare il pensiero di san Vincenzo su questa dottrina dell’adesione alla volontà di Dio, ha quasi certamente influito l’insegnamento del cappuccino Benedetto di Canfield, la cui dottrina era all’apice della diffusione all’epoca della conversione spirituale di san Vincenzo, quando cioè egli si pose alla scuola del Bérulle. Tuttavia, ancora una volta, non si nota nel pensiero di san Vincenzo uno sviluppo di tipo teorico del tema. L’adesione alla volontà di Dio nasce da una disponibilità pratica ad obbedire ai comandi dell’autorità mediante quell’indifferenza, che non è pura passività ma è attiva consegna della propria volontà, secondo l’esperienza umana del Figlio di Dio. Il Figlio di Dio a che cosa era affezionato? Lo sapete come era sottomesso alla volontà del Padre suo? Ecco a che si paragona, per bocca del profetare: ad una bestia da soma nelle mani del padrone. Paragona la sua perfetta consegna al Padre a quella di una bestia, che non può scegliere, né ha desideri; di cui si fa quello che si vuole; che è sempre pronta ad uscire ed andare, a ricevere una sella o un basto, ad essere attaccata a un carro o stare ferma; tutto le è indifferente; lascia fare, non è per nulla attaccata alla sua stalla né inclinata ad andare da una parte o dall’altra; non si attacca a nulla. Non avete mai visto, passando, muli fermi davanti a una porta? Sono cinque o sei insieme: aspettano che il conducente esca. Appena arriva, partono, svoltano a destra o a sinistra, si fermano, fanno tutto come vuole lui. Non desiderano nulla. Mi sono fatto come una bestia da soma (Sal 72, 23a). Ecco come io sono, dice Nostro Signore, per manifestarci in qual modo si adattasse a quello che Dio voleva da lui. Che docilità! Che abbandono in Dio! Che cosa gliene derivava? E Io sono sempre con te (Sal 72, 23b). Egli era sempre con Dio. E poiché ho fatto la tua volontà, Signore, e mai la mia, Tu sei con me… Se ho fatto qualcosa di buono, sei Tu che mi hai guidato; io mi sono abbandonato al minimo cenno della tua volontà. E perché? Perché, mio Dio, mi sono fatto per te come una bestia da soma; mi sono consegnato alle fatiche, all’abiezione, ai patimenti e a tutte le disposizioni che Tu hai deciso per me; e perciò, Signore, ti sei servito di me per realizzare ciò che ti era gradito. Il missionario dunque, per aderire alla volontà di Dio, deve farsi indifferente. Ora, obbedire ai superiori in tutto ciò che gli viene chiesto consegnando la propria volontà in un abbassamento così totale della libertà – come la lima in mano al fabbro -, francamente oggi può sembrare inattuale ed inapplicabile. E difatti lo sarebbe se quest’attitudine non fosse mitigata, come è richiesto da una sana antropologia, dal dialogo nella fraternità e dalla predisposizione dell’amore. Qui si tratta di una disponibilità che scaturisce dalla fede di mettere la propria libertà nell’atteggiamento di voler ricevere “la forma” che concretamente l’obbedienza a Dio, attraverso le mediazioni umane costituite, andrà modellando nella propria persona. E certamente si tratta di integrare il pensiero della santa indifferenza con le acquisizioni, che pure lo Spirito ha portato nella sua Chiesa, di una maggiore coscienza di fraternità che si costruisce attraverso il dialogo e una equilibrata dialettica nella ricerca della volontà di Dio. Di fatto in ciò san Vincenzo era debitore all’autoritarismo del suo tempo. Ciò concesso, il richiamo alla santa indifferenza rimane intatto nella sua validità; anzi, ai tempi d’oggi, permane utile come monito, affinché non si cada nel rischio contrario di esaltare la propria autonomia in modo da distruggere il senso di appartenenza e di comunione con il mistero della volontà di Dio e, ultimamente, nelle relazioni di fraternità in comunità. E come già per l’umiltà anche l’obbedienza, nutrita dello spirito di indifferenza, per san Vincenzo è fonte di serenità d’animo e di equilibrio umano nel missionario: Non vedete, fratelli, i risultati positivi di coloro che hanno simile indifferenza? Non sono attaccati che a Dio, e Dio li conduce. Li vedrete domani, nella settimana, tutto l’anno, anzi tutta la vita in pace. Li vedrete, rivolti a Dio con continuo fervore, espandere nelle anime quanto di amabile e salutare Dio opera in loro. E se paragonate coloro che sono indifferenti con quelli che non lo sono affatto, vedrete che le loro opere sono risplendenti e sempre abbondanti di risultati: quali progressi nella loro persona, forza nelle loro parole, benedizione nelle loro attività, grazia nei loro consigli e bella testimonianza nelle loro azioni.
c.3. Accanto alla virtù dell’indifferenza, nell’insegnamento di san Vincenzo vi è una particolare sottolineatura della povertà personale e comunitaria. Non che san Vincenzo fosse uno sprovveduto circa l’utilità dei beni di questo mondo, anzi nella sua vita si è mostrato un abile amministratore. Ma proprio per questo sapeva per esperienza come l’attaccamento ai beni potesse illusoriamente nutrire la falsa coscienza di una propria autosufficienza. D’altra parte, l’attaccamento alla ricchezza era stato uno dei punti più deboli della sua prima maturità, quando alla ricerca di se stesso, si era illuso di potersi autorealizzare mediante una “buona sistemazione” nella carriera ecclesiastica, in modo da poter ricambiare i suoi familiari dei sacrifici fatti per lui. Non c’è male nel mondo che non provenga dalla maledetta passione di possedere. La cupidigia, l’avarizia, l’amore delle ricchezze sono la sorgente di tutti i mali. L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali (1 Tm 6, 10). Chi è soggetto a quella bramosia ha in sé il principio, l’origine e la sorgente di ogni male. Non c’è nulla di cui un uomo, spinto da questo desiderio ostinato, non sia capace. Ha in sé quello che occorre per commettere tutto sfrontatamente. La cupidigia irrompe nella mente umana e vi costruisce un mondo alternativo, accrescendo nella persona il sentimento di potenza. Pertanto di fronte ai beni materiali san Vincenzo suggeriva di praticare, e lui lo praticava, il distacco dalle cose quale segno concreto del proprio attaccamento a Dio. Così, quando in seguito al rovescio di una causa, fu persa la proprietà della fattoria di Orsigny, che era il granaio di San Lazzaro, san Vincenzo visse uno dei più alti atti di confidenza nella Provvidenza della sua esistenza: Persuadiamoci di aver molto guadagnato, perdendo (la fattoria di Orsigny). Dio ci ha tolto, insieme con questo podere, la soddisfazione che avevamo di averlo; e quella che avremmo avuto andandovi qualche volta. Un simile sollievo, allettando i sensi, sarebbe stato per noi come un dolce veleno che uccide, come un coltello che ferisce e come un fuoco che brucia e distrugge. Eccoci liberati, per misericordia di Dio, da questo pericolo. Ed essendo ora in maggiore difficoltà nei bisogni materiali, la divina Bontà vuole portarci ad avere una maggiore fiducia nella sua Provvidenza e indurci ad essere in tutto abbandonati ad essa, sia per le necessità di questa vita, sia per le grazie della salvezza. Dio voglia che questa perdita materiale sia ricompensata da un aumento di fiducia nella divina Provvidenza e d’abbandono ai suoi voleri, da un maggior distacco dalle cose terrene e dalla rinunzia a noi stessi. O mio Dio! O fratelli! Quanto saremmo felici! Oso sperare che la sua paterna Bontà, la quale opera in tutto per il meglio, ci concederà questa grazia. La povertà materiale, che egli considerava il mezzo che avrebbe preservato la Compagnia dal pericolo di dissolversi, è vista pertanto come mezzo per non avere intralci nel realizzare l’unione con Cristo. Il significato che san Vincenzo le dava non era pertanto quello della “fuga dal mondo”, ma di un affetto più radicale a Cristo e una libertà più profonda dello spirito per consolidarsi nel rapporto con lui, imitandolo nella fiducia al Padre che non lascia mancare nulla ai suoi figli. O dolce Salvatore, ti scongiuriamo per i tuoi meriti, dacci, concedici lo spirito di povertà che non ci faccia cercare che Te solo. Esso proviene da Te, dipende da Te, daccelo dunque, te ne supplichiamo umilissimamente. Ah! Fratelli, chiediamolo! Se l’otterremo, avremo tutto, e se morremo con questo spirito saremo felici. La povertà vissuta così, alimentava la fiducia nella Provvidenza, che si sarebbe incaricata di provvedere alla comunità: “Se facciamo gli affari di Dio, – diceva – Dio farà i nostri”. Tale fiducia scava nella persona il profondo sentimento di appartenenza, che porta ad atteggiamenti che possono parere assurdi come quello di Abramo che sacrifica il figlio Isacco a Dio, il cui senso però non è tanto nell’uccisione del figlio, ma nell’abbandono all’onnipotenza di Dio che sa portare a compimento la promessa al di là delle apparenze.