Onorina nacque a Millesimo, in diocesi di Mondovì, il 28 febbraio 1824 da una famiglia molto cristiana. Ebbe una sorella tra le visitandine ed una tra le domenicane. Proprio da quest’ultima conosciamo alcuni particolari della sua vita. L’amore per i poveri non fu per lei spontaneo. Lo imparò dalla carità dei suoi genitori. Si racconta che provava ripugnanza, quando arrivava il suo turno di servire il povero che suo padre invitava ogni giorno a tavola. Più tardi, quando la carità era diventata matura in lei, si rimproverava amaramente d’aver ceduto all’eccessiva delicatezza della sua natura e per rifarsi del merito perduto, non rifiutava mai l’elemosina al povero che incontrava mentre andava al mercato e le ricordava quello che il padre assisteva. Lo chiamava il suo San Giuseppe. Intorno all’età di dodici anni, una malattia dolorosa la obbligò a rimanere per parecchio tempo a letto. I genitori attraverso la preghiera tentavano di scongiurare il pericolo di perderla. Onorina tentava di persuaderli che era meglio morire quando la coscienza era ancora leggera. A suo padre che le faceva osservare che era la più piccola della famiglia, per nulla preoccupata, rispondeva: “Non fa nulla, sarei contenta di andare io per prima, voi poi mi seguireste tutti”. I disegni del Signore erano altri: sarà lei a curare suo padre malato. In quella dolorosa circostanza, fu il sostegno della mamma e la consolazione del padre. E lì, al capezzale di suo padre, imparò a comprendere chi fosse un ammalato.
Quando timidamente rivelò la sua determinazione di farsi Figlia della Carità, sua madre, vera cristiana, ma indebolita dai continui sacrifici, cercò di ritardarne la separazione. Onorina in un primo tempo, come le sue sorelle aveva sentito una certa attrazione per il convento, ma dopo una fervente novena a san Vincenzo aveva capito con chiarezza che doveva entrare tra le Figlie della Carità. Anche il parroco, amico di famiglia, era dello stesso parere. Egli appoggiò perciò la sua partenza piuttosto furtiva, con la quale arrivò a Torino presso alcuni parenti, che purtroppo invece di aiutarla come si aspettava, si opposero al suo proposito. La sua prova ebbe termine quando iniziò il postulato presso l’ospedale San Giovanni di Torino. Aveva desiderato entrare tra le Figlie della Carità, ma in realtà non aveva mai incontrato le suore. Quando per la prima volta vide da vicino il loro abito, le parve così strano e singolare che ne fu sconcertata a tal punto che, nelle prime due settimane, mentre durante il giorno riusciva a distrarsi con le varie occupazioni, la notte sentiva una tale ripugnanza che trascorreva il tempo seduta sul suo letto a preparare il ritorno in famiglia. Infine la tentazione fu vinta.
Suor Patetta cominciava appena a gustare la calma serena della vita del seminario, che i moti rivoluzionari del 1848 indussero i superiori per prudenza a chiuderlo per qualche tempo. Fu un compito molto penoso per la Direttrice persuadere le seminariste a scrivere alle rispettive famiglie per comunicare il ritorno in famiglia. Una sola non vi ritornò, suor Patetta. Gettandosi ai piedi della Direttrice le ricordò le gravi difficoltà che aveva dovuto superare per allontanarsi da sua madre e dai parenti: “Se torno a casa, sarò sorvegliata, reclusa in tal modo che non mi sarà più possibile uscire quando il seminario riaprirà le porte”. Fu trattenuta. Dopo la presa d’abito fu inviata all’ospedale San Giovanni, ove le fu affidato un reparto. Sapeva mantenervi l’ordine con la sua sola presenza. Abitualmente era di poche parole, ma diventava eloquente quando si trattava di difendere Dio. Un esempio. Una giovane protestante gravemente malata fu portata in ospedale e mandata nella sala affidata a suor Patetta, che moltiplicò le attenzioni ed escogitò mille modi per portarla a convertirsi. E vi riuscì. La giovane si lasciò istruire e fece la sua abiura, superando le minacce della sua famiglia che non volle più vederla. La fortunata convertita restò pia e buona e più tardi entrò fra le domenicane. Al tempo dell’invio delle suore nei campi di battaglia in Crimea, suor Patetta fu una delle prime a dare la propria disponibilità. Si presentò a padre Durando. Egli restò pensoso di fronte alla sua esile figura. Non voleva esporla alla fatica di un lungo viaggio e ad un compito superiore alle sue forze. “Povera figlia, – le disse – saresti un peso più che una risorsa se ti dessi il consenso!”. Suor Patetta sentì il suo cuore gonfiarsi e le lacrime agli occhi. Rivolgendosi ancora a padre Durando in tono supplichevole rinnovò la sua preghiera. Il giorno seguente, avendo egli visto il sincero desiderio della suora diede il suo assenso per la partenza. La sua salute poco robusta risentì dell’inevitabile fatica. Quando due anni dopo fu richiamata a Torino, aveva compiuto il suo dovere con una fedeltà esemplare.
Tornata a Torino, i superiori pensarono a lei per un’altra missione. Si stava organizzando la prima partenza delle suore per la Sardegna e suor Patetta fu fra le prescelte con altre quattro o cinque. A Cagliari dimostrò una generosità che sorprendeva tutte le sorelle. Era la prima ad alzarsi, durante il lavoro non teneva conto della sua salute né delle delicatezze di cui la si voleva circondare. Faceva di tutto per assumere su di sé i fardelli più pesanti e i lavori più faticosi. La sua occupazione preferita era lavare i malati che si presentavano in ospedale nello stato più miserabile e più ributtante. Sembrava non accorgersene e con parole cordiali rasserenava gli infermi. La fede ardente e la sua fiducia illimitata in san Giuseppe, furono i due strumenti con cui suor Patetta riuscì a far costruire l’istituto San Giuseppe per gli orfani. Un altro segno eclatante della fiducia in san Giuseppe fu il seguente. Un giorno che si trovava nel reparto delle manicomiali, mentre distribuiva il pane alle malate, una di loro senza che la suora potesse parare il colpo, la colpì all’occhio con il pane che teneva in mano con la forza che è propria dei pazzi. Suor Patetta non lasciò trapelare un gemito, si coprì il volto con il fazzoletto e uscì raccomandando alle infermiere di colpo era stato terribile e aveva centrato l’occhio. Suor Patetta si recò immediatamente in cappella, ai piedi del tabernacolo, poi, credendosi sola, si inginocchiò davanti all’immagine di san Giuseppe ed esclamò: “Oh, caro santo, tu sai che ho perduto un occhio, ma un solo occhio non mi basta per servire bene i miei poveri; ottienimi di vedere ancora con entrambi!”. Intanto, le sue compagne, avvertite dell’accaduto, circondarono addolorate la suor servente e cercarono uno specialista. Questi affermò che il caso era disperato ed era indispensabile estrarre l’occhio per salvare l’altro. Mentre le suore costernate aspettavano l’ora fissata per l’intervento doloroso, una di loro ebbe l’ispirazione di deporre sull’occhio colpito l’immagine di san Giuseppe. Poco dopo, i medici arrivarono e restarono senza parole nel costatare che il male era quasi interamente guarito. La nostra fortunata suor Patetta le rassicurò che vedeva di nuovo bene, parlando loro della viva riconoscenza verso la potente intercessione del suo santo protettore.
All’avvicinarsi dei suoi 50 anni di vocazione, le compagne avrebbero voluto far festa alla loro suor servente, ma quando questa capì che cosa le stavano preparando disse che avrebbe festeggiato “la cinquantina” solo nel silenzio della casa provinciale a Torino. Vi si recò per l’ultima volta. Al suo ritorno una malattia cardiaca la colpì. Il 21 ottobre 1898, suor Patetta volle ancora alzarsi e durante la mattinata si occupò dei conti della casa, con piena lucidità, ma intorno alle undici e mezzo, si sentì male, e chiese che le venissero amministrati subito gli ultimi sacramenti. Calma e abbandonata tra le mani di Colui che aveva cercato unicamente in tutta la sua vita, si confessò al missionario che accorse subito alla sua richiesta. Raccomandò alle sue sorelle il fervore, la regolarità, l’umiltà e insistette sull’unione degli spiriti e dei cuori, soggiungendo con forza le seguenti parole: “La vera carità fraterna consiste nell’essere unite per portare insieme le nostre croci, le nostre sofferenze, le nostre tribolazioni, le nostre miserie; la misura della nostra carità sono i difetti delle nostre compagne: più questi sono numerosi, maggiormente deve crescere la sopportazione e la cordiale compassione per loro”. Questo era stato il programma della sua vita. Due giorni dopo, il 23 ottobre, morì. Il suo funerale fu un trionfo di popolo. Aveva 74 anni di età e 51 di vocazione. Dal 1862 fino alla morte fu superiora dell’ospedale San Giovanni di Dio a Cagliari, per 37 anni. Di questa Figlia della Carità merita di essere sottolineata la pietà. Era infaticabile nel lavoro, in particolare quello infermieristico, le piaceva ripetere con san Vincenzo che “dovremo farci scrupolo di perdere un solo istante”.