Emma nacque a Bergamo il 26 febbraio 1904 da Michele, affermato grossista di tessuti, e da Emilia Cividini, casalinga. Emma fu la primogenita di cinque figli. L’ambiente familiare era caratterizzato da una profonda fede religiosa, da una discreta agiatezza economica e da un alto senso degli affetti familiari. La bambina, di sana costituzione, trascorse serenamente gli anni della fanciullezza. Frequentò le scuole elementari di via Borfuro e successivamente i primi tre anni delle scuole tecniche all’Amedeo di Savoia. In famiglia si prodigò generosamente per i fratelli e le sorelle più piccole di lei, sviluppando quel carattere materno e altruista che divenne un aspetto caratteristico della sua personalità. Poiché il padre si ammalò ed essa insieme al fratello Giuseppe dovette dedicarsi all’azienda paterna interruppe la scuola all’ultimo anno del secondo ciclo superiore. Si era nei tempi del primo dopoguerra. I contrasti sociali e la crisi economica travagliavano anche una zona in espansione economica come il polo industriale Bergamo-Milano. La giovane Emma, coadiuvata dal fratello Giuseppe e da qualche dipendente, non solo mantenne, ma ampliò l’attività paterna. I genitori di Emma erano orgogliosi di una figlia così affettuosa ed impegnata negli affari.
Dopo dieci anni di intensa attività commerciale, in cui Emma mostrò capacità e bravura, ecco il fulmine a ciel sereno. La giovane che, peraltro, era corteggiatissima e poteva aspirare ad un buon matrimonio nella sua Bergamo, manifestò ai genitori il desiderio di diventare Figlia della Carità. La determinazione gettò nello scompiglio l’intera famiglia. Questa scelta significava l’abbandono di un’attività così promettente per tutti, genitori e figli. Emma non si scoraggiò e quasi sfidò la Provvidenza: si sarebbe fatta suora se fosse riuscita ad assicurare la tranquillità economica ai suoi. Tra numerose difficoltà, ma con una decisa e chiara volontà di riuscire nel suo intento, vendette le stoffe, si fece saldare le fatture, chiuse i conti, trovò un posto in banca per il fratello, rinunciò alla sua parte di eredità, acquistò degli immobili per assicurare l’avvenire ai genitori e il 2 febbraio del 1929 partì senza indugi a Torino per entrare tra le Figlie della Carità. La commossa testimonianza della sorella Paola nel raccontare questi fatti aiuta a capire che cosa accade in una vocazione religiosa, quali emozioni, sentimenti, sofferenze, eppure quale grazia e forza conceda Dio a chi sceglie per sé.
“Mia sorella Emma raccontava che all’età di 7 anni, la vigilia della prima comunione, si sognò adulta, vestita da Figlia di Carità. La Madonna, che le era apparsa, indicandole il vestito, le disse: ‘Quando sarai grande dovrai vestire così!’. Da allora questo pensiero la ossessionò. Ella cercò di resistere e scacciare il pensiero di quel sogno. Emma era tanto buona e paziente con noi più piccoli, ci aiutava al mattino a vestirci e preparava la colazione. La domenica ci accompagnava alla santa Messa ed il pomeriggio s’andava a giocare all’oratorio dalle suore Figlie del Sacro Cuore. Durante la quaresima ed i mesi di maggio e giugno di sera andavamo in parrocchia per le prediche. Questa breve passeggiata era per noi motivo di svago e di gioia, per sgranchirci le gambe e guardare le vetrine. Ci sentivamo libere. Mio padre guardava ogni volta l’orologio quando si usciva e si rientrava, ed ogni volta ci raccomandava di non fermarci per strada e parlare con nessuno. Fino ad una certa età noi tre sorelle vestimmo sempre uguali, sembravamo tre gemelle. I miei genitori erano molto buoni, ma severi. Un giorno trovandomi sola con Emma mi disse pensosa e commossa che un giorno avrebbe sposato il più bello e ricco signore che esiste e poi sarebbe andata lontano, in terra straniera, in mezzo a tanti, tanti, bambini che non avevano una mamma e lei li avrebbe amati tanto, li avrebbe seguiti con cura ed amore e li avrebbe fatti istruire. Io capivo, e mi sentivo stringere il cuore in una morsa dolorosa lasciando cadere il discorso. Una mattina la vidi piangere. Intuivo qualcosa, mi strinsi a lei chiedendo il motivo di quelle sue lacrime. Ella rispose: “Non ho il coraggio di parlare alla mamma”. La presi per mano e l’accompagnai in cucina. “Mamma, Emma ha qualcosa da dirti!”. La vide piangere e singhiozzare. Sorpresa le chiese: “Emma che cosa ti succede. Che cos’hai, non stai bene?”. Mia sorella prima titubante e poi tutto d’un fiato disse: “Voglio farmi suora!”. La mamma si alzò in piedi addolorata e con voce turbata: “Non sarà vero! Sarebbe la nostra rovina. Come facciamo in negozio senza te; tuo fratello non ce la fa anche se c’è il commesso. Ci obbligheresti a vendere il negozio”. Emma, con calma, rispose che il Signore avrebbe pensato a mettere tutto a posto, se lei doveva partire. La medesima settimana cominciò a interessarsi per le vendite della merce ai vari clienti e andò nelle fabbriche per saldare le fatture. In un viaggio fatto a Milano, trovandosi davanti alla sede della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, si sentì spinta ad entrare. Si trovò di fronte ad un giovane commesso in divisa a cui chiese di parlare col direttore. Questi l’accompagnò per uno scalone, per lunghi corridoi, finché giunsero in una grande sala ove di fronte ad un grande tavolo stavano seduti dei signori. Mia sorella, smarrita, intimidita si rese conto di trovarsi dinanzi a delle persone importanti e porgendo un saluto con franchezza disse: “Signori, scusate, dovete assumere mio fratello come impiegato, perché io devo farmi suora e non posso entrare in convento se prima non ho trovato lavoro a mio fratello”. Queste parole furono accolte con una bella risata, poi, si sentì una voce dire: – “Cosa, cosa? Signorina si calmi, si spieghi”. Così dovette ripetere tutto. Si divertirono a farla parlare ed a interrogarla. Infine, probabilmente il direttore, disse: “Se suo fratello è sveglio quanto lei, lo accettiamo volentieri”.
Così avvenne che, dopo quindici giorni, mio fratello Giuseppe riceveva la lettera di assunzione in quella banca. Dopo l’assunzione del fratello, poteva pensare liberamente al suo inserimento nella comunità religiosa. Benché corteggiata da un bravo giovane, non gli corrispondeva, ma al tempo stesso voleva essere sicura della sua vocazione e pregava. Accadde un tragico fatto. Per fatalità questo giovane era presente alle corse automobilistiche del circuito di Monza, quando un pilota sbandando con la macchina andò a finire fra il gruppo degli spettatori bergamaschi. Le vittime furono nove fra questi anche quel giovane. Ricordo che ai solenni funerali, al passaggio del suo carro la sentii dire: “Ora, il mio destino è segnato”. Non solo questo giovane sperava che ella desistesse dalla sua vocazione, ma anche altri giovani in quei tempi solevano passare sotto la nostra finestra per mostrarsi nel loro aspetto migliore, sperando di far breccia su di lei. Mi piace ricordare mia sorella Emma prima che si facesse suora. Era molto ordinata, anche perché doveva trattare con la gente, teneva i capelli arricciati e persino tagliati alla maschiotta. A quei tempi tutto ciò era una spigliatezza birichina e le dava un’aria graziosa. Io l’ammiravo molto e le volevo un gran bene, la trovavo perfetta, era la mia confidente.
Ero convinta che fosse senza cuore e glielo dicevo spesso; ed ella mi rispondeva: “Non capisci quanto soffro più di te io che lascio sei persone care!”. Anche mio padre ne soffriva terribilmente, lo sentivo esclamare più volte: “Emma, tu sarai la mia morte”. In negozio si stava esaurendo tutta la merce, anche la mamma e noi sorelle ci districavamo nella vendita. Mio fratello, il pomeriggio si prestava ad aiutare. Emma aveva deciso di entrare in comunità per la fine di febbraio o ai primi di marzo. Si era in pieno carnevale del 1929. Per festeggiare la sua partenza pensammo di adornare la casa con tante stelle filanti da formare archi di passaggio con dei cartelli scritti in rosso e nero: W suor Bersabea. Ella sorrideva, ma in fondo era triste, i suoi occhi le si riempivano di lacrime, io la osservavo ed essa le ricacciava in gola con una frase spiritosa e poi soggiungeva: “Aspetto anche te dove vado io. Sapessi quanta pace provo in fondo al cuore. Ricorda che io lascio sei persone, il mio dolore è immenso, non sono senza cuore”. L’ultima sera che mia sorella passò in famiglia ricordo che verso le undici sentimmo la serenata sotto le finestre. Capimmo che erano gli amici che venivano per l’ultimo saluto. Ci alzammo dal letto, io col vassoio dei biscotti, Emma con la bottiglia di Marsala. L’altra mia sorella Angela con il vassoio dei bicchieri. Scendemmo sotto il portone, aprimmo. Poi pensammo fosse meglio farli salire in casa, i saluti furono cordiali, con l’augurio che presto sarebbe ritornata a casa, l’avrebbero rivista e avrebbe abbandonato così le sue “idee stravaganti”. Il mattino seguente ci alzammo alle quattro, volevamo accompagnarla alla stazione, ma lei si rifiutò energicamente. Fu accompagnata a Torino da un’amica di famiglia e non volle prolungare la tristezza degli addii. Si recò in camera di mio padre per salutarlo e come l’abbracciò si prese due sberle: “Emma, che cosa fai? Presto sentirai che sono morto. E si mise a singhiozzare”. Emma era sempre stata la sua beniamina. Sentivo mia madre che gli diceva: “Perché ti disperi, ti restano gli altri tre figlioli, sei ingiusto!” E lui a ripetere: “Quella sarà la mia morte”. Da quel giorno non si faceva che attendere posta da mia sorella e intimamente l’attendevamo a casa. Mio padre non ebbe la fortuna di rivederla più. Si spense nel giro di due anni e le ultime sue parole furono: “Emma! Emma!” La comunità non concesse il suo rientro a casa perché novizia a Parigi: soffrimmo anche per questo”.
Il racconto così circostanziato della sua vocazione è uno spiraglio per capire quale cumulo e intreccio di emozioni ci siano all’interno di una vocazione di consacrazione e quale mistero di grazia essa nasconda, incomprensibile agli occhi di chi non ne fa l’esperienza. Emma dunque trascorse il periodo del seminario a Torino e lo concluse a Parigi. Si preparava a partire per una terra di missione, in Cina. Tutto sembrava pronto per la partenza, mancavano soltanto gli ultimi preparativi. In Cina però iniziò la rivoluzione socialista e la situazione non si presentò favorevole per l’invio in missione di religiosi. Suor Brambilla venne allora dirottata in Sardegna. Nel maggio del 1931 arrivò a Sassari nella Casa della Divina Provvidenza, in maniera abbreviata chiamata I Cronici. Quando suor Brambilla vi arrivò, la casa era costituita da un fabbricato assai modesto. Vi erano passati, dall’inizio della sua attività nel 1921, circa una novantina di ammalati almeno di quelli registrati negli archivi. La casa era retta da suor Pia Biassoni, milanese, oculata amministratrice di tutto ciò che la carità dell’aristocrazia sassarese faceva pervenire. L’incontro con questa sua quasi conterranea, provata del resto dalla rude esperienza mineraria di Buggerru, fu per suor Brambilla quanto di meglio potesse attendersi. Prese subito il nome di suor Luisa, nome che mantenne finché visse.
Il 10 ottobre 1931, o qualche mese prima, suor Luisa ricevette da suor Biassoni l’incarico di occuparsi di tutto ciò che riguardava la segreteria della casa. È da questo mese che appare nei registri la sua calligrafia: una scrittura chiara, da manuale, che per quasi quarant’anni contraddistingue tutti gli incartamenti de I Cronici. Quei libri contabili e quei registri che credeva d’aver gettato via abbandonando i magazzini paterni se li ritrovava di nuovo, ma non per segnare lucrosi profitti da commerciante bensì per lasciare tracce di quell’ assistenza cristiana e vincenziana che religiosi e laici seppero sviluppare in Sassari. Il lavoro di suor Luisa non si esauriva con la contabilità, ma si ampliava alla cura di una trentina di bambine tracomatose che la casa aveva accolte. A queste bambine ella cominciò a fare da madre e da maestra. Alle piccole offriva la scuola materna, alle più grandette dava i primi insegnamenti della scuola elementare. Doveva preoccuparsi anche di curare la scuola materna per circa 150 bambine tracomatose che venivano dall’esterno e che la scuola di stato rifiutava per timore del contagio. Madre, maestra e segretaria d’azienda: queste funzioni che pensava d’aver abbandonato alle proprie spalle, furono anche i tre ruoli che suor Luisa sviluppò in un’attività che non conobbe soste. Poiché le orfane cominciarono ad aumentare notevolmente, nel 1933 giunse nell’istituto suor Caterina Fontana. A quest’ultima furono affidate le bambine e suor Luisa poté dedicare il suo tempo alla cura dell’asilo e della scuola elementare interna. Quest’attività contraddistinse il periodo che va dal 1933 al 1939.
Col 1939 nella casa che, nel frattempo, aveva ampliato i locali si iniziò ad accogliere gli orfani tracomatosi o abbandonati. Del resto alcuni orfani erano già stati accolti e dimessi prima di quell’anno. Il primo bambino dell’età di tre anni fu accolto il 25 settembre 1931 e dimesso nell’agosto del 1934 all’età di sei anni. Circa dieci bambini fra i tre e i dieci anni furono accolti nell’istituto fra il 1931 e il 1938. Furono i primi bambini ai quali suor Luisa dedicò le sue cure materne. Dal 1939 al 1963, data in cui i ragazzi furono ridotti a quattro o cinque, ai” Cronici” sono stati curati, educati ed istruiti circa 192 ragazzi, quasi sempre segnati da gravi sventure familiari. Dal 1939 al 1950 ne furono accolti contemporaneamente una sessantina. Suor Luisa sapeva allevarli con grande amore. Molti di essi erano affetti da tracoma, altri da rachitismo, altri da malaria, altri da disturbi di vario genere. Suor Luisa, che i più piccoli chiamavano Mamma Gigia, si occupava singolarmente di tutti, li chiamava per nome, li curava, sapeva dare al momento opportuno le carezze e gli sculaccioni. Si vedeva in lei non solo la suora, ma anche e soprattutto la madre.
Alla base del suo metodo educativo stava essenzialmente uno squisito amore materno. Nutriva una grande fiducia nei suoi “ragazzi”, non ammetteva le risse, voleva che i più grandi cedessero ai più piccoli, sapeva punire e premiare all’occorrenza. Poi riteneva fondamentale l’assoluta necessità dello studio, essendo consapevole che per gli orfani la vita avrebbe presentato non poche difficoltà. Perciò seguiva assiduamente tutti negli studi ed era severissima con chi li trascurava. Sovente dedicava ore ed ore ai più “deboli nello studio” come era solita chiamarli. Accanto a quest’attività suor Luisa svolgeva quella non meno importante di “segretaria” della casa. Data la sua preparazione culturale e la sua esperienza di commerciante sapeva stimolare l’azione degli amministratori laici, orientando le scelte economiche in base alle esigenze principali.
Dal 1931 al 1969, anno in cui suor Luisa lasciò Sassari per Buddusò, la Casa Divina Provvidenza si sviluppò prodigiosamente. La piccola cameretta situata davanti alle Conce era diventata un intero isolato, che va da piazza Sant’Agostino a via Amendola. La generosità della borghesia cattolica sassarese accanto all’operosità delle Figlie della Carità aveva dato consistenza a quest’opera. L’attivismo instancabile di suor Luisa, senza nulla togliere a suor Pia Biassoni prima e a suor Redenta Dorigo poi, ha fatto di quest’istituto una delle benemerenze della città di Sassari in campo assistenziale. Divenuta superiora della casa nel 1964, alla morte di suor Redenta, si preoccupò di “assicurare” quasi tutte quelle ospiti dell’istituto che in un modo o nell’altro svolgevano attività lavorativa. Donna Laura Segni, presidente dell’opera per lunghi anni, aveva di suor Luisa una stima illimitata. Come effettiva amministratrice delle entrate della casa, suor Luisa si contraddistinse per l’oculatezza amministrativa. Il suo senso del risparmio talvolta veniva frainteso. In realtà essa non fece mancare mai niente di ciò che era essenziale ai poveri e agli orfani. Certo non amava lo spreco e lo sperpero. Nel 1969 quando suor Luisa lasciò l’istituto, l’attivo in bilancio documentò la sua capacità e la sua correttezza amministrativa.
La sua permanenza nella casa di riposo di Buddusò non fu lunga. La sua salute malferma non le impedirono di porre mano alla ristrutturazione della casa, dotandola di ascensore e migliorandone l’impianto di riscaldamento. “I vecchi sono come i bambini – diceva – occorre trattarli con grande amore”. A quelli desiderosi di rendersi utili assegnò un “pezzo di orto” da coltivare, agli altri sapeva dare all’occorrenza il sigaro e il quarti no di vino. Peggiorando le sue condizioni di salute (soffriva da tempo di artrite e sbalzi di pressione) i superiori ritennero opportuno chiamarla a Cagliari all’infermeria. Suor Luisa, come di consueto, obbedì. Trascorse i suoi ultimi due anni di vita (1974-1976) prodigandosi per le consorelle dell’infermeria. Si è spenta il 13 novembre 1976 a 72 anni. Per volere dei suoi orfani la sua salma fu riportata a Sassari. Di lei suor Redenta Dorigo un giorno disse con tono di rimprovero a Donna Laura Segni: “Suor Luisa non è una suora è una mamma”. Donna Laura rispose: “Superiora, questo dovrebbe essere il migliore elogio di una Figlia della Carità”.