Eleonora Eckel nacque da un’agiata famiglia di Brooklin il 5 ottobre 1862. Dopo tre anni di matrimonio la mamma, Elisa Saint-Jean, restò vedova ed Eleonora orfana. Un incendio di inaudita violenza in una notte aveva ridotto in cenere il sontuoso palazzo di Brooklin. Così la madre, un’energica e volenterosa americana, dovette utilizzare il suo talento di scrittrice per mantenere sé e la figlia. Si trasferì a New York, assunta da un giornale, che la mandò come inviato speciale a Parigi. Sul piroscafo che la trasportava entrò in amicizia con un gesuita francese. La giovane giornalista con la sua intelligenza viva e curiosa si appassionò subito alle questioni religiose che erano l’unico tema delle loro conversazioni. Protestante poco convinta, aveva sentito che quel prete possedeva la verità. Là, in pieno oceano, la signora Eckel incontrò Dio. Aveva lasciato gli Stati-Uniti da protestante tiepida, sbarcava in Francia neofita fervente. Sistematasi a Parigi, fece battezzare subito la figlia. Era il 29 marzo 1865. Le diede il nome di Genoveffa, e per sé riservò due anni di istruzione prima di abiurare dal protestantesimo e ricevere il battesimo. Trovata l’occasione si sposò con un ricco americano, il signor Harper. La giovane Eleonora crebbe nell’agiatezza, frequentando i salotti della Parigi bene ed impratichendosi in tutte le arti, dalla pittura alla musica. Però in questa vita dissipata, la giovane Eleonora esperimentò il vuoto esistenziale e cominciò a sentire un bisogno di radicalità.
L’occasione maturò in seguito alla morte del patrigno. La mamma per distrarsi dalla nuova sofferenza decise di intraprendere un viaggio in Italia. Qui la giovane Genoveffa vide, in parecchie città italiane, le Figlie della Carità all’opera. Le nacque in cuore lo strano desiderio di essere come loro. Ma sapeva che non poteva parlarne alla madre per non acuire il dolore di una separazione che già la tormentava. Decise di ricorrere ad un altro mezzo. “Vorrei approfittare del nostro viaggio per imparare seriamente l’italiano – disse alla madre -. Lasciami passare qualche mese presso le Figlie della Carità. Sono sicura che mi troverei benissimo”. Data l’apertura mentale della madre, la cosa si fece senza difficoltà alcuna. Mentre la madre continuò a visitare l’Italia, Genoveffa rimase all’Istituto San Giuseppe di Frassineto, in Piemonte, diretto dalle Figlie della Carità. La giovane americana vi imparò certamente un po’ la lingua italiana, ma si appassionò soprattutto a quella vita di dedizione a Dio, verso la quale si sentiva attirata con sempre maggiore determinazione. Quando, dopo qualche mese, sua madre concluso il suo viaggio venne per prendere la figlia, Genoveffa, sicura questa volta della propria vocazione, trovò il coraggio di rispondere: “No, mamma, non parto; resto per sempre con le suore. Voglio essere Figlia della Carità”. La madre tentò di opporsi con ogni stratagemma, ma la diciassettenne Genoveffa rimase irremovibile sul suo progetto. Alla fine la madre si rassegnò pensando che il richiamo della vita spensierata di Parigi avrebbe in breve tempo fatto cadere le illusioni alla figlia e l’avrebbe riportata a Parigi. La realtà fu che Genoveffa sarebbe rimasta tra le Figlie della Carità fino alla morte.
Dopo il postulato all’ospedale di Alessandria, Genoveffa arrivò al seminario di Torino. Il primo contatto con la vita di lavoro, di povertà, di rinuncia, fu davvero un po’ austero per la pur generosa novizia. Spazzare, rigovernare le stoviglie, accendere il fuoco (…) tutte occupazioni nuove di cui non aveva la minima idea! E il rammendo delle calze? Che idea buffa! Sarebbe stato così semplice comperarne un paio di nuove, invece di turarne minuziosamente i buchi! Ma, dal momento che Gesù voleva quei nonnulla, quegli umili sforzi per unirsi a Lui e per seguirlo, tutto acquistava significato (…) Per amor Suo, suor Eckel iniziò a piegare la propria volontà e a mettersi di buon cuore legata al “treno della vita comune”. Alzata alle quattro, lavoro senza sosta, spoliazione d’ogni cosa – anche per un fazzoletto bisognava chiedere il permesso! – e oltre ciò, c’era il pensiero della madre di cui aveva spezzato il cuore e che non si faceva per nulla sentire! Tuttavia nulla la distingueva dalle sue compagne di seminario; meno esperta delle altre nei lavori materiali, trovava occasione di atti più frequenti di umiltà, ecco tutto!
Alla presa d’abito, il 13 gennaio 1883, suor Eckel venne inviata alla casa di riposo a Vho di Piadena e, nel gennaio 1884, all’Istituto San Vincenzo di Virle Piemonte. Qui dovette resistere all’assalto della madre che improvvisamente decise di venire a riprendersi la figlia. La signora Harper arrivò a Virle con qualche baule di vestiti elegantissimi, gioielli e leccornie d’ogni sorta. Ma dovette riportarsi a Parigi la sua mercanzia, che ormai non faceva più gola alla figlia. Visto che la seduzione non era riuscita, la madre attaccò con un nuovo registro: quello dei rimproveri fino a passare alle minacce. “Mia figlia mi appartiene. Mia figlia, l’avrò! Le leggi ci sono pure per qualche cosa!” – diceva a voce alta. Suor Eckel impaurita si rivolse alla superiora, perché l’accompagnasse a Torino dalla visitatrice. Ed ecco che, mentre si stava organizzando il viaggio, la madre prese una decisione severa: abbandonare la figlia e tornarsene a Parigi. E così fu. Per ventisei anni non darà più segno di vita. Suor Eckel, oppressa da tante emozioni, fu sollevata dall’essere mandata in un angolo lontano, all’Asilo della Marina di Cagliari. Era il maggio del 1897. Vi rimarrà per 42 anni, fino alla morte.
Appena arrivata, le venne dato il nome di suor Maria. E poiché non conosceva bene la lingua italiana, le vennero affidate alcune bambine per insegnare loro gli elementi della lettura e della scrittura, e così imparò lei stessa, giorno per giorno, quello che doveva insegnare in quella classe infantile. Il racconto delle sue tribolazioni divenne uno degli elementi di molte cordiali ricreazioni all’Asilo della Marina. A poco a poco, si venne a sapere che suor Maria aveva in sé belle risorse: la musica e la pittura. Non ne aveva mai parlato, avendo deciso fin dall’inizio della sua vita di comunità di nascondersi per poter conservare le “sue opere per il Re”- come diceva -, tutte piccole cose, avvalorate dall’amore e dalla fedeltà al suo Signore. Però, per obbedienza, accettò di buon cuore la classe delle lingue straniere e l’insegnamento della musica e della pittura alle alunne dell’Asilo della Marina; queste scoprirono presto nella nuova maestra l’artista che si serve di ogni bellezza per far innalzare lo spirito verso la Bellezza increata. Ancora oggi restano nella cappella dell’Asilo della Marina le stazioni di una bellissima Via Crucis, dipinta da lei: viste da lontano le si possono scambiare per oleogafie dozzinali, in realtà osservate da vicino subito si vede che sono tavole ben rifinite, quasi miniaturizzate. I corsi tenuti da suor Maria diventarono così fiorenti, che furono destinati per essi due sale spaziose e ben illuminate. Il giorno, nel quale si dovette organizzare nell’asilo un corso superiore, vedendo che la suor servente era imbarazzata per trovare locali adatti, suor Maria, con tutta semplicità, offrì i suoi, scambiandoli volentieri con due aule scomode. Dalle sue labbra non uscì mai una parola di rimpianto. Rinunciare a se stessa in ogni cosa era il suo programma, e le compagne affermano che lo realizzò alla lettera.
Suor Maria, sempre più libera di sé, seguì certamente molto da vicino Gesù; non bisogna cercare altrove il segreto del fascino che esercitava su chi l’avvicinava. In ogni cosa si presentava con semplicità; non pensava mai di dare un avviso, una lezione, ma insinuava con dolcezza un consiglio, una parola affettuosa, spesso mettendovi la sua nota originale e piacevole. Un giorno disse ad una suora francese che arrivava a Cagliari alquanto scoraggiata e nostalgica: “Preghi in francese (…) La Madonna sarà sorpresa nell’udire questa lingua salire da qui, si accorgerà di lei e la consolerà, vedrà! Io, quando ho delle pene, prego in inglese o in francese!”. E la stessa suora soggiunse: “Suor Eckel è stata per me un angelo visibile; facevo ricorso a lei con piena fiducia, poiché sapevo che le sue parole erano ispirate da un cuore caritatevole. Abbiamo passato insieme molti anni di fatiche e di dispiaceri; lei non si scoraggiava mai. La sua calma mi sorreggeva e in mezzo alle difficoltà mi ridonava serenità”. Era sempre occupata; non perdeva un minuto; ma, in mezzo al suo lavoro, sapeva interromperlo per accogliere amabilmente una richiesta, per rendere un servizio, per dire una buona parola. Si poteva sempre ricorrere a lei; la sua carità ingegnosa era così spontanea, che non si aveva l’impressione di disturbarla. Suor Maria si serviva di tutte le occasioni che si presentavano per far crescere in lei Cristo nell’oblio di sé. “Durante i quarantadue anni che ho passavo con suor Eckel, – scrive una sua compagna – non l’ho mai udita parlare di quello che faceva. I suoi talenti artistici potevano attirarle molti elogi e molti complimenti; ma tutto ciò le era indifferente”. “Ringraziamo Dio, diceva, quando ci lascia forze sufficienti per lavorare, e abbastanza difetti per umiliarci. Quello che non si riesce a fare dedicandosi al lavoro, lo si può compiere con la sofferenza e con l’umiliazione”. Anche il suo spirito di povertà fu notevole. Suor Maria, che era vissuta nel lusso e che in seminario si stupiva che si rammendassero le calze invece di sostituirle con delle nuove, ora praticava volentieri la povertà. Aveva molta cura del suo piccolo corredo, che dopo la sua morte fu trovato in perfetto stato; badava attentamente che niente andasse perduto, facendo del suo voto una questione d’amore. Nella sua ultima malattia, non riuscendo a finire una tazza di brodo: “Conservatelo, raccomandò, l’aggiungerete questa sera alla mia minestra”.
Con le sue alunne era riservata e dignitosa, ed è stata per tutte il tipo compiuto di una donna consacrata autentica. La sua sola presenza incuteva rispetto e venerazione. Quando suor Maria insegnava a fare un sacrificio, ad agire virilmente, a prender gusto all’assiduo lavoro, era difficile resistere al suo sguardo. E poi, aveva una maniera tutta sua d’infondere coraggio, di consolare per una pena. Ad una delle sue allieve, buona musicista, che un giorno piangeva per un grande dispiacere, disse: “Va’ in cappella, apri l’armonium e suona la tua pena al Signore. Con la musica, gli si può dire tutto!”. E così faceva lei stessa. Nella sua scuola di pittura non si stancava di spiegare alle ragazze che con i colori si poteva far brillare qualche raggio della bellezza increata. L’anima di suor Maria era essenzialmente un’anima d’orazione. Nell’andare e venire pregava senza posa. La si trovava per prima al suo posto, raccolta, invocando con fervore Gesù, la Santissima Vergine(…) o il buon ladrone per il quale aveva una singolare devozione. “Nessuno pensa a pregarlo, diceva; eppure è il santo che è piu autenticamente in Paradiso! Lo ha affermato Gesù! Ottiene delle grazie quando gliele chiediamo; ne ha il tempo, perché nessuno gliene chiede!”. Erano ventisei anni che suor Eckel era in Sardegna, quando un giorno ricevette una lettera di sua madre, il primo segno di vita da quando se ne era andata sconfitta dall’istituto di Virle! L’amore materno si era improvvisamente risvegliato: “La Santissima Vergine, che amo molto, – le scriveva – mi ha finalmente ottenuto la forza di perdonarti e di scriverti”. C’era anche una lettera per la suor servente, che provocò la più franca ilarità nella piccola comunità della Marina. La signora Harper, dopo ventisei anni, si chiedeva se la sua figliuola avesse potuto abituarsi alla “sua nuova esistenza” e, con la maggiore semplicità di questo mondo, faceva delle raccomandazioni: “Soprattutto, mia cara Madre, la lasci dormire finché non si sveglia. L’ho abituata così e questo sistema è assai vantaggioso per il suo temperamento. È perché l’ho sperimentato che glielo scrivo(…)”. Da oltre un quarto di secolo suor Eckel era in piedi al primo suono della campana delle quattro del mattino! La riconciliazione fu suggellata da inverosimili doni, che da quel momento arrivarono all’indirizzo di suor Maria. L’apertura delle enormi casse che arrivavano da Parigi era un avvenimento. Ne uscivano meraviglie: un pianoforte, un reggimento di bambole meravigliose, chilometri di stoffe (…)!
Nel 1914, suor Eckel fece il ritiro a Rue du Bac, cosa che procurò alla madre e alla figlia la dolce gioia d’abbracciarsi e di dimenticare tutto, pregando insieme ai piedi della Vergine Immacolata. Si dovevano ritrovare per l’ultima volta. La signora Harper moriva poco tempo dopo, felice d’aver dato a Dio sua figlia. La sofferenza fisica non fu risparmiata a suor Maria. Colpita da sordità, portò questa croce pesante col sorriso sulle labbra. Durante le ricreazioni, si faceva spiegare perché si ridesse, per non rimanere in disparte e per unirsi all’allegria delle compagne. Sapeva sopportare il dolore più acuto senza dir nulla. Essendole stato diagnosticato un glaucoma all’occhio destro, i medici giudicarono l’operazione indispensabile: “Se posso lavorare ancora, mi sottopongo volentieri”, disse. Il povero occhio operato la faceva sempre soffrire, ma lei diceva scherzando: “Che volete? È arrabbiato per gelosia, perché non vede più come l’altro!”.
Una compagna dei suoi ultimi anni ha scritto: “Poco tempo prima della sua morte, vedendola salire molto lentamente la scala, le dissi la mia pena. No, no, non mi esprima compassione, mi disse sorridendo. Si possono guadagnare tanti meriti salendo una scala! Ad ogni scalino dico: Gesù mio, misericordia! per i peccatori; ad ogni pianerottolo recito la nostra bella preghiera: O Maria, concepita senza peccato (…) per chiedere alla Madonna d’accogliermi a capo della scala che conduce in Paradiso”. Il pensiero della sua prossima fine velava di tristezza l’asilo. Per suor Maria, la morte non dovette essere un sacrificio. Si è addormentata dolcemente, il 28 gennaio 1939, silenziosa come era stata in vita. Aveva 77 anni di età e 57 di vocazione.