Il nome di suor Caterina Oddini è legato ai primi tempi dell’orfanotrofio di Bonorva, poiché ne fu la prima superiora e l’anima per 35 anni, dal 1892 al 1927. Era nata nel 1850 ad Ovada, in provincia di Alesssandria. Aveva ereditato dal padre un’intelligenza aperta ed una grande delicatezza di sentimenti; e dalla madre la semplicità. Per la sua educazione fu affidata ad un precettore, il padre Garassini delle Scuole Pie del Collegio di Carcare, vicino a Savona, dove abitò per lungo tempo con la zia. Con lui approfondì la conoscenza religiosa, la storia della Chiesa e gli autori classici. Sapeva a memoria la Divina Commedia, ed anche da anziana ne recitava ancora lunghi brani. Acquistò attraverso l’osservazione della natura nozioni di botanica e zoologia. Suo padre le insegnò il disegno e la musica. Era arrivata a suonare qualsiasi pezzo a prima vista. Non da meno fu la conquista delle virtù, fra le quali spiccava la modestia.
Con quest’ottimo bagaglio umano, a vent’anni nel 1870 entrò tra le Figlie della Carità. Con la presa d’abito, le fu affidato il compito di maestra di scuola. Ma, dopo poco tempo, fu mandata a Piacenza per fare la cucina. Sarebbe potuto sembrare un declassamento, ma lei fu ben contenta di mettersi a servire umilmente gli altri. Un giorno trovò un pacchetto, avvolto con un foglio di musica; lo guardò e si mise a solfeggiarlo, suonando su una tastiera immaginaria. Una compagna che l’aveva vista, lo disse alla suor servente, che le chiese se sapeva di musica. La sua risposta fu: “Sì, a casa suonavo qualche volta il piano!”. Incaricata di insegnare canto alle ragazze, lo faceva senza trascurare le casseruole. Rimase a Piacenza per otto anni, poi fu richiamata a Torino e mandata in un ricovero. Qui la sua indole ardente, originale e attiva, si sentiva un po’ compressa dall’ambiente monotono. In una lettera di quest’epoca scriveva: “Che povera cosa è la nostra vita! Credevo che per poter vivere in comunità bisognasse essere morta a se stessa; ma dopo tanti sforzi, mi trovo più viva che mai; a trent’anni le mie aspirazioni mi sembrano giovani e vibranti come quando ne avevo sedici. No, non bisogna distruggerci, ma bisogna immergerci in Dio con tutti i nostri affetti, che sono parte di noi stesse, affinché egli ci trasformi in Lui. Quale grande grazia ci ha fatto Dio, permettendoci di amarlo come si ama un amico, un fratello, uno sposo!”.
Nel 1884 fu inviata, a 34 anni, in Sardegna per fare scuola di musica alle ragazze dell’orfanotrofio di Sassari. Insieme alla musica si occupò della biancheria e delle suore malate. Pochi anni dopo nel 1892, dovendosi aprire la nuova casa di Bonorva, vi fu destinata come superiora. Si diede con prudenza a stabilire rapporti con la popolazione locale e con il clero, per non urtare la sensibilità di nessuno. Era molto servizievole, faceva favori alle maestre della scuola del villaggio e si occupava volentieri di insegnare il canto alle ragazze, preparando con brio complimenti e dialoghi per la distribuzione dei premi di catechismo. Un poco alla volta tutte le devozioni care alla Comunità cominciarono a fiorire a Bonorva: la Medaglia Miracolosa, l’associazione delle Figlie di Maria, delle Dame della Carità e delle Madri Cristiane.
Era molto affezionata alla Provvidenza di Dio. E fu la Provvidenza che le indicò la strada per l’inizio dell’orfanotrofio. In una riunione delle Dame della Carità si parlò di una bambina di nove mesi trovata accanto alla madre morta, abbandonata da tutti. Il fatto la spinse ad accogliere insieme a quell’orfanella un piccolo numero di bambine sole. La casa si allargò un poco alla volta quasi da sé. Da parte sua metteva serenità e ordine, fedeltà e sacrificio. Con la più grande indifferenza passava dallo scrittoio alla cucina, dall’armonium al pollaio.
Fu incaricata di tradurre in italiano il formulario, le meditazioni, le conferenze di san Vincenzo e gli Annali, lavoro che continuò per 26 anni. Il suo scrittoio era di un genere speciale: seduta su una sedia bassa, col testo francese sulle ginocchia, dettava la traduzione mentre preparava la verdura, interrompendo per sorvegliare le casseruole, per dare il becchime alle galline o per ascoltare chi andava a chiederle qualche elemosina.
Il tempo a Bonorva passò veloce. Nel 1927 i malanni della vecchiaia cominciarono a farsi sentire, e così fu richiamata a Torino. La gente, mentre si allontanava da Bonorva ripeteva: “Abbiamo perduto una madre!”. Passò cinque anni nell’infermeria della casa provinciale, dove morì il 21 agosto 1932.