Nata il 21 dicembre 1902 a Castello d’Agogna (Pavia), Angela Lacelli mostrò subito un’intelligenza aperta, un cuore delicato, un’attrattiva profonda per il bello, il bene e la carità. Già a sedici anni manifestò il desiderio di seguire Cristo tra le Figlie della Carità, rinunciando persino agli studi classici verso cui era orientata. Trasferitasi la sua famiglia a Casale Monferrato, divenne allieva del Laboratorio, figlia di Maria e damina della Carità. “Vivace e attiva nell’ordinario della vita – testimoniò una sua compagna – , in cappella si trasfigurava, diventava immobile, grave, raccolta”.
A 22 anni entrò in postulato a Torino presso l’ospedale San Giovanni. Il suo distacco dalla famiglia, essendo figlia unica, non fu accettato dai suoi genitori. Pensarono di ricattarla emotivamente non rispondendo per molto tempo alle sue lettere. Lei sempre attenta non mancò di consolare i suoi genitori: “Vorrei che nei vostri cuori regnasse sovrano quell’amore che rende amabile e dolce anche il sacrificio”. Dopo la presa d’abito fu mandata a Badia Polesine, all’orfanotrofio maschile Caenazzo, in provincia di Rovigo. I suoi discoli la prepararono con la loro ribellione a diventare una donna capace di educare attraverso la bontà e la fermezza condite insieme. Quando il suo carattere pronto urtava la suscettibilità di una compagna, praticava subito tutta l’umiltà di cui era capace, facendo dimenticare la pena di cui era stata causa. Molto gioiosa, era l’anima delle ricreazioni, sempre pronta a prendere l’iniziativa di qualche invenzione geniale per rallegrare la vita di comunità. In questi anni di orfanotrofio si preparò ad emettere i santi voti, che fece per la prima volta nella notte di Natale del 1929. Aveva scritto nel suo diario: “Appartengo al Signore, voglio vivere per Lui, unirmi a Lui prendere i suoi sentimenti, le sue intenzioni, vivere della sua volontà senza domandargli il perché, anche nelle cose che ripugnano maggiormente alla mia natura. Vivo con gli occhi fissi su di Lui, per spiare i suoi minimi desideri e realizzarli subito”. Nel 1936 fu chiamata a Torino per esercitare il compito di suora d’ufficio in seminario, ossia collaboratrice della direttrice delle novizie. Le costò molto lasciare i suoi ragazzi. Ma intanto aveva appreso a dominare se stessa, attraverso l’accettazione lieta delle umiliazioni che la rendevano umile e sottomessa: “Le mie umiliazioni – scriveva nelle sue note intime sono cose da fanciulli. Le tue, sì, o mio Signore, sono vere e grandi umiliazioni. Gesù abbi pietà della tua povera pubblicana”. Con le seminariste era ferma e decisa per quanto riguardava il dovere, e piena di comprensione e di delicatezze materne per le loro debolezze.
Nel 1939 fu destinata come superiora a Sassari presso il Rifugio Gesù Bambino. Il modo in cui avvenne la destinazione mantenne aperta una ferita che l’aveva accompagnata dall’inizio della sua vocazione e continuò a segnarla in profondità, rendendo la sua vocazione una sequela di Cristo senza equivoci. A San Salvario aveva appena ricevuto dalla visitatrice la destinazione per la Sardegna, che fu chiamata in parlatorio, dove inaspettatamente era venuto a trovarla suo padre. Non sapendo che fare, al suo saluto, subito gli rivelò l’ultimissima notizia della sua partenza per la Sardegna. E lui di rimando, senza lasciarle il tempo di potersi spiegare, prese il cappello e la lasciò. Il padre si ammalò e trascinò un’esistenza di dolore, che si chiuse con la morte durante la guerra quando era interrotta ogni comunicazione con la Sardegna. Suor Lacelli dunque arrivò in Sardegna segnata dal dolore, che si portava in cuore da lungo tempo: quello della sua vocazione non accolta dalla sua famiglia.
Quando arrivò al Rifugio rivelò immediatamente una forte tempra di dirigente e di educatrice, collaborando attivamente con la presidente Donna Ignazia Dettori e successivamente con Donna Amelia Spada. Le testimonianze più toccanti del suo impegno risalgono al tempo della guerra, quando si aprì il doloroso problema dello sfollamento: “Si deve sfollare? Oppure, come dicono gli enti di assistenza, rimandare le bambine nelle proprie misere case? I piccoli centri dei comuni vicini a Sassari, dove si vorrebbe sfollare, rifiutano l’ospitalità; le bambine sono tante e piccole, rimandarle in famiglia? Era impossibile perché appartenenti a famiglie scompaginate dalla miseria materiale e morale. Fu penoso l’assillo di suor Angela”. Con piena fiducia in Gesù Bambino a cui le affidò perché fosse Lui a salvarle, decise di tenere le bambine al Rifugio. Erano 120 tra grandi e piccine. Allora iniziò una vita di stenti. Lei s’ingegnò in tutti i modi. Con il suo carretto fece continuamente la spola tra i paesi dei dintorni di Sassari per procurare grano, orzo, olio, patate e legumi. Queste continue uscite nel periodo invernale, la facevano ritornare a casa coperta di polvere, tremante dal freddo, molle di pioggia e di fango. Il suo impagabile sorriso nascondeva la fatica, ma non la tosse. Per sopperire all’indigenza di quel periodo di guerra, suor Angela pensò di aprire un piccolo pensionato. Lo frequentarono 20 signorine delle scuole superiori. Le loro famiglie erano molto grate alla superiora che si era sobbarcata questa responsabilità della custodia delle proprie figlie. Alla retta della pensione, le famiglie aggiungevano derrate alimentari che insaccavano nelle grandi valigie e spedivano alle loro figliole: farina, pane, zucchero, sapone, da devolvere alle orfane.
La sua fatica esteriore, non era maggiore di quella interiore per cercare di aderire al Signore. Il suo programma era rimasto intatto dai primi tempi della sua consacrazione: “Voglio farmi santa mediante l’umiltà”. Diceva di sé: “Non devo rattristarmi inutilmente delle mie cadute, ma convincermi della mia miseria ed amare lo stato di umiliazione, nel quale Gesù permette che io cada. Devo umiliarmi profondamente, fare un bell’atto di amore e darmi con maggiore carità alle mie compagne, ai miei ragazzi. La carità coprirà le mie miserie”.
Nel dopoguerra riprese la fatica dell’educazione in tempi meno straordinari, ma suor Angela sentì che la salute declinava. Era ancora giovane, non aveva ancora 50 anni, avrebbe voluto poter ancora fare qualcosa, ma nel maggio del 1948 una febbre insistente cominciò a tormentarla. Si prese un po’ di riposo a Castelsardo. Rientrò in settembre al Rifugio più malata di prima. Il 27 settembre si coricò a letto per non alzarsi più. Nell’anno successivo ebbe la gioia di vedere tutte le sue compagne attorno al suo letto per rinnovare insieme a lei i voti. Il 17 giugno 1949 andò incontro alla morte, “facendo un salto – come lei diceva – sulle ginocchia della Madonna”. Aveva 47 anni di età e 25 di vocazione. Aveva detto di sé: “Devo guardare alla vita come a una moneta da distribuire, non devo temere la morte, che è un arco trionfale gettato tra il tempo e l’eternità”. E così è stata la sua esistenza di Figlia della Carità.