Il secondo tratto della fisionomia del prete della Missione è, conseguentemente, quello dell’essere in stato di missione. E ciò, ancora una volta, non come ideale o come impegno da compiere, bensì come l’essere sorpresi dall’amore di carità di Cristo. E’ il realismo del Vangelo che affascina san Vincenzo. Ciò che trasmette ai suoi missionari è l’essere attratti dal mistero di Cristo, che spinge a mantenere vivo nella storia l’impeto evangelico. Il vivere “la Missione” non è altro o un di più del ritradurre nel presente la stessa esperienza di carità missionaria di Gesù con i suoi discepoli, i quali andavano di villaggio in villaggio, predicando la presenza del Regno di Dio e curando gli infermi. Chi dice missionario, dice apostolo: è dunque necessario che ci comportiamo come gli apostoli, poiché siamo mandati come loro ad istruire i popoli; e dobbiamo andarvi alla buona, con semplicità, se vogliamo esser missionari ed imitare gli apostoli e Gesù Cristo. San Vincenzo non è stato geniale nell’inventare qualcosa di nuovo. La sua genialità è consistita piuttosto nel trovarsi puntuale all’interno di un’invenzione, quella dello Spirito Santo, che ha fatto rinascere, all’interno di un’antropologia che, nel XVII secolo, si andava colorando di razionalismo, il gusto spirituale di riattuare con semplicità la lettera del Vangelo. E pertanto ha insegnato ad aderire a Cristo come criterio di vita, attualizzandone lo stesso suo modo di esistenza nell’amore ai poveri. Al missionario è chiesto di entrare in questa immedesimazione per poter realizzare la sua vocazione. In questa vocazione siamo assai conformi a Nostro Signore Gesù Cristo, il quale, venendo al mondo, dimostrò che il suo scopo principale era di soccorrere i poveri e prendersene cura. Misit me evangelizare pauperibus. E se si fosse domandato a Nostro Signore: “Che cosa sei venuto a fare sulla terra?”, avrebbe risposto: “Soccorrere i poveri” – “E che altro?” – “Soccorrere i poveri” ecc. Difatti, nella sua compagnia non aveva che poveri e si occupava molto poco delle città, conversando quasi sempre con i campagnoli e istruendoli. Perciò, non siamo forse molto fortunati di essere nella Missione per il fine medesimo che ha indotto Dio a farsi uomo? E un missionario, interrogato su ciò, non sarebbe per lui un grande onore poter rispondere con Nostro Signore: Misit me evangelizare pauperibus? Io sono qui per catechizzare, istruire, confessare, assistere i poveri. Ora, tal conformità con Nostro Signore, che cosa porta con sé, se non l’appartenenza a un disegno soprannaturale? Il fondamento della vita spirituale, descritto da san Vincenzo, consiste dunque nella riproposizione di questa passione di evangelizzazione e di soccorso dei poveri, continuando nella storia l’atteggiamento di dedizione assoluta, espressa dal mistero dell’inabissamento del Verbo Incarnato nel limite della nostra creaturalità fino a condividere la nostra morte. E tutto ciò, non in termini teorici, ma nelle situazioni concrete della vita missionaria. San Vincenzo si entusiasmava quando doveva raccontare le gesta di eroismo dei suoi missionari nelle terre lontane come l’Irlanda, la Polonia, l’Algeria, il Madagascar. In questo spirito di dedizione assoluta, fino al martirio, vedeva il realizzarsi dello spirito evangelico. Raccogliamo come esempio il racconto che fece dei missionari di Genova in occasione dell’inizio della diffusione della peste in città: Raccomando alla Compagnia i nostri confratelli di Genova, i quali vivono in situazione di disagio, avendo dovuto cedere la casa per gli appestati e loro andarsene in una casa d’affitto. Le fatiche del trasloco sono state pesanti, non avendo avuto che sette giorni di tempo per farlo. Eppure, grazie a Dio, stanno soffrendo nel modo giusto, anzi beati loro che soffrono per il bene pubblico! Il loro è un soffrire per il bene di tutti: per Dio prima di tutto e poi per gli altri. Vedete, fratelli miei, dobbiamo essere disposti, anzi desiderare di soffrire per Dio e per il prossimo, di consumarci per questo. Quanto sono fortunati coloro a cui Dio concede tali disposizioni e tale desiderio! Sì, fratelli, dobbiamo essere tutti di Dio e al servizio di tutti; dobbiamo darci a Dio per questo, consumarci per questo, dare la nostra vita per questo, spogliarci, per modo di dire, per rivestirci di questo; almeno desiderare di essere in tale disposizione, se non vi siamo già; essere disposti ad andare e venire dove a Dio piacerà, sia nelle Indie che altrove; insomma mettere volentieri a repentaglio se stessi per il servizio del prossimo e dilatare il regno di Gesù Cristo nelle anime. Ed anch’io, vecchio come sono, devo avere la medesima disposizione in me, persino di partire per le Indie, per conquistarvi anime a Dio, anche se dovessi morire per via o sulla nave. Che cosa credete che Dio esiga da noi? Il corpo? Eh! Niente affatto. E che cosa dunque? Dio chiede la nostra buona volontà, una buona e autentica disposizione di approfittare di tutte le occasioni per servirlo anche con il pericolo della vita; di avere e conservare in noi questo desiderio del martirio che qualche volta Dio gradisce come se lo avessimo effettivamente sofferto”. Su questo fondamento di dedizione piena a Dio e ai fratelli si innervano le arcate della vita spirituale del missionario vincenziano.