Medaglia Miracolosa – riflessioni

La concepita senza peccato e il serpente
Ecco ciò che ci appare al primo immediato sguardo della medaglia: una Donna gloriosa, splendente, cir­condata di luce e di grazia (cfr. Apc 12). Se non legges­simo attorno a questa «visione» l’invocazione dettata dalla Madonna, non esiteremo a inserirla; oppure scri­veremo «Io sono l’Immacolata Concezione». Ciò che Lourdes chiarirà più tardi, è profondamente anticipato dalla visione di Caterina. Maria e il peccato sono due antitesi. Non è soltanto il contrasto della natura: lei è bellissima, la trionfante, la purissima. Lui invece: il nemico, l’accusatore, il ten­tatore, l’illusore, il bugiardo, il menzognero. È il buio, l’oscurità, la notte. Lei sovranamente vittoriosa, paci­ficamente trionfante, serenamente maestosa nel suo es­sere una Madre Santa, immacolata, ricolma di tutto ciò che creatura può ricevere da Dio. Lei che «piena di grazia» canta: Ecco la serva del Signore… Grandi cose ha fatto in me il Signore.

Il serpente invece ripete: «Non servo». Propinatore di ragionamenti a vuoto. Vuoti di Dio e di amore. Forse pieni di puro ragionare, di pure risonanze verbali, al di là e al di sotto delle quali, si nasconde il rovescio del disinganno. Non è soltanto un contrasto di luce e di ombra, di grazia e di peccato, di amore e del suo contrario.

È soprattutto un rapporto, un reciproco scontro, una vittoria su duello. Non sono due mondi che orbi­tano in distanza. Sono sempre uno contro l’Altra. Sem­pre di fronte: uno per uccidere, l’Altra per salvare. Uno per annebbiare, l’Altra per illuminare. Non si ignorano a vicenda. Sono inseparabilmemnte in con­trasto. Ma non in contrasto inconscio, casuale, for­tuito, è una lotta congenita.

« Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe questa ti schiaccerà la testa e tu insidierai il suo calcagno» (Gen. 3,15). Sono entrambi destinati a scontrarsi. Dove c’è uno, lei è assente. Dove lei regna esso non osa.
Il suo veleno non l’ha colpita. Al contrario, «è stata ricoperta di Spirito Santo». È stata arricchita di ogni bene di salvezza: della somma di tutti i beni di grazia, del fior fiore, fin dalla sua concezione. Il Padre riser­vava una tal Madre per il suo Figlio, perché, come il Primogenito (cfr. Ef. 1,18), fossero da lei formati, se­condo la sua immagine, (cfr. Rom. 8, 29) tutti gli altri innumerevoli figli. Nella Medaglia la contempliamo con le mani piene di grazia che salva, di santità che innalza. Sono i frutti dell’albero. I frutti dello Spirito sono: amore, pace, bontà, ciò che è gradito a Dio (Ef. 5,10), sapienza, spirito di santità (2 Cor. 6,6 ), la fede, la carità, la purezza (I Tim. 4,12), Dall’albero cattivo escono invece gli altri frutti, quelli della carne: fornicazione, libertinag­gio, inimicizie, gelosie (cfr. Gal. 5,1g-23).

Ecco colei che a mani aperte, spande i suoi frutti. Sono mani aperte per risanare, per confortare e per accogliere. Come la madre tende la mano al suo bam­bino che corre a rifugiarsi in lei, così sono le mani di Maria per i suoi bambini. Perché tutti sono e siamo bambini. Se non diventate come bambini… NON PO­TETE. Nulla possiamo. Lei è stata la prima e la più grande fra questi bambini, proprio perché non si è sen­tita grande, ma una piccola serva. Ha rovesciato la prova della libertà dei progenitori: «sarete come Dio» (Gen. 3,5).

Senza peccato, dall’inizio del suo essere. Cioè il vuoto dell’io e la pienezza di Dio, della sua grazia, della sua santità, del suo Essere. La chiamiamo Figlia di Sion (Sof. 3,14-17)? Troppo poco. La diciamo nuova Eva? Molto di più. È la Donna vestita di sole (Apc. 12), la nuova Gerusalemme, la Vergine-Madre (Is. 7,14). È la Madre di colui che «era dall’inizio non iniziato presso Dio… e si fece carne di carne umana» (Cfr. Giov. 1,1-14).

Il «senza» è troppo poco, dà il vuoto (anche se del male), mentre lei è «con» Dio: con il Padre, con il Figlio, con lo Spirito. Lei non sente privazioni, non pas­sò il deserto della ribellione, ma dice «Farò tutto ciò che Dio ha detto» (Cfr. Es. 24,7). Non osa dire nep­pure tanto, e si dichiara semplicemente «serva» (Lc. 1,38). È la nuova presenza di Dio nel popolo. 16 Colei che porta Dio. La vera Arca dell’Alleanza (cfr. Es. 40,16­21,34-35), sulla quale «stenderà la sua ombra la po­tenza dell’Altissimo» (Lc. 1,35). I Padri della Chiesa scrivono che, alla domanda dell’Angelo a Maria, tutto il mondo trepidava per la risposta. Il «sì» di Maria esaudì l’antica preghiera del profeta Isaia: Stillate, cieli dall’alto e le nubi facciano piovere la giustizia; si apra la terra e produca la salvezza e germogli insieme la giustizia. (Is. 45,8). «All’annuncio dell’Angelo la Vergine Maria accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò la Vita al mondo» (LG, 53).

Il principio rivelato che «senza la fede e impossi­bile essere graditi a Dio» (Ebr. 11,6), si è realizzato pienamente soltanto in Maria. Nessuno ha percorso questo cammino più in profondità. L’epistola agli Ebrei canta la fede dei personaggi più importanti della storia della salvezza, specialmente di Abramo (Ebr. 11). Già San Paolo nell’epistola ai Romani, scrisse di Abramo: «non esitò con l’incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento» (Rom. 4,20-21). Eppure non fu facile. Per Abramo fu necessario che Dio gli ricordasse che non c’era niente di impossibile per lui (Gen. 18,14). Sembrava proprio impossibile avere un figlio nella vecchiaia. Ma se era impossibile avere un figlio in vecchiaia, era sempre naturale che un figlio fosse generato dai suoi genitori. Sarebbe stato lo stesso per Zaccaria ed Elisabetta. Ma Zaccaria «non credette alle parole dell’Angelo Ga­briele» (cfr. Lc. 1,20), tuttavia tale mancanza di fede non bloccò la generosità di Dio: «quelle cose si sareb­bero avverate a loro tempo» (Lc. 1,20). Ciò che S. Paolo nell’epistola ai Romani o l’autore dell’epistola agli Ebrei non concludono, è invece chia­ramente concluso da S. Luca. Zaccaria vacillò e non credette. Ma Elisabetta canta: «Beata te che hai creduto» (Lc. 1,45).

E non fu superato anche Abramo? Se fu «impossi­bile» aver un figlio in vecchiaia, non fu forse «più impossibile» avere un figlio «senza conoscere uomo»? (Lc. 1,34). Ora San Paolo scrive che «eredi si diventa per la fede» (Rom. 4,16), come Abramo, per fede, è diventato padre di «tutti noi». Tanto più Maria è Ma­dre di tutti noi. Tanto più in lei si realizza «la promes­sa fatta ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discen­denza» (Lc 1,55). Maria ha creduto a ciò che è impossibile. Ciò impli­ca lo smarrimento della sicurezza umana, là dove questa sembra indispensabile, là dove la sua privazione, rende stranieri in mezzo ai concittadini. Nel medesimo tempo impone la seguente legge: rendere reale l’invisibile ri­vestendosene come di un abito, in un contesto indivi­sibile dall’umano, dal concreto, dal contingente quo­tidiano. «Come è possibile questo»? È possibile essere nel mondo e non del mondo? È possibile accettare di vivere dentro componenti umane e, spesso, umanizzate, ma respirare un’altra aria? Per noi no, per Dio «tutto è possibile». Per questo noi siamo figli di Maria, più che di Abra­mo, perché Maria è « più » Madre per noi, di quanto sia padre Abramo.

Pregate per noi che ricorriamo a Voi!
Paolo VI ci dice: «Poiché Maria è pur sempre la strada che conduce a Cristo, ogni incontro con lei non può non risolversi in un incontro con Cristo stesso» (29 aprile 1965). Il Concilio Vaticano II ci ricorda: «Poiché ogni salutare influsso della Beata Vergine ver­so gli uomini, non nasce da una necessità, ma dal bene­placito di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei me­riti di Cristo, si fonda sulla mediazione di Lui, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia; non impedisce minimamente l’immediato contatto dei credenti con Cristo, anzi lo facilita» (LG, 6o). Ecco: lei è così grande, così ricca, perché così è pia­ciuto a Dio, «per il beneplacito di Dio». Tutto appar­tiene a Cristo poiché «Egli è il capo… il principio, il primogenito» (Col. 1,18), poiché Dio «lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione, di ogni altro nome che si possa nominare» (Ef. 1,21). Egli è l’unico Mediatore (I Tim. 2,5). Ma il Mediatore ha voluto una Mediatrice, per suo «beneplacito». Per questo Maria è «la nostra bene­detta Madre». Madre della Chiesa e Madre spirituale degli uomini. «Maria è veramente Madre delle mem­bra di Cristo… perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli della Chiesa, i quali di quel capo sono le membra» (LG, 53 citando S. Agostino).

Lei è così grande per questo: per far ricorso, per trovare rifugio, per essere di sollievo. La sua non è una grandezza isolante e lontana, distante e inavvicinabile. Lei è grande per essere con i suoi piccoli. Per essere vicina. Per essere chiamata e invocata. Non aspetta altro, perché non è potente che per rendere forti.

Tutti pregano lei. Tutti hanno pregato lei. Per que­sto nessuno può ricorrere ad altri, sia perché lei è l’ani­ma della Chiesa che prega, sia perché gli altri otten­gono da lei, imparano da lei. Gli altri danno ciò che da lei ricevono, perché solo lei ha il Figlio, solo lei è sua Madre, solo lei è «diventata» sua Madre anche nella fede. «Maria fu più beata nell’accoglíere la fede di Cristo che nel concepire la carne di Cristo, perché a colei che disse: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte » (Lc. 11,27), Gesù rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano». In realtà che cosa giovò ai parenti carnali di Gesù, che non credettero in lui, il fatto d’essergli parenti? Così anche lo strettissimo vincolo della ma­ternità non avrebbe dato alcun vantaggio a Maria, se ella non fosse stata più beata per aver portato il Cristo nel Cuore che non nella carne» (S. Agostino, De S. Virg. PL 40,399). Noi ricorriamo a lei, perché dobbiamo imparare da lei, e da lei tutto ricevere, anche ciò che è di Cristo. Questi noi sembrano essere in antitesi con Maria, sembrano «altro» da essa. No, davanti a lei esiste solo l’antitesi dell’antico avversario. Noi non siamo in anti­tesi, perché lei è con il Figlio, e il Figlio è «con noi tutti i giorni fino alla fine dei secoli» (Mt. 28,20). E lei vuole essere con noi, perché per noi fu fatta. È con noi anche quando diciamo «riconosco la mia colpa» (Sal. 50,5); quando diciamo: «Ecco, vengo io» (Ebr. 10,7); oppure confessiamo: «sono un uomo peccatore» (Lc. 5,8). Anche quando diciamo «no» e facciamo poi il «sì». Anzi ricorriamo a lei perché faccia del nostro no un suo sì al Padre. Noi ricorriamo a Lei nel bisogno. E siamo sempre nel bisogno di grazia, di conversione, di perfezione, di distacco, di annullamento, di consolazione. Non ricor­riamo soltanto a date fisse, in momenti prestabiliti, o quando l’etichetta spirituale lo richiede: ricorriamo sempre. Senza la nostra Madre, la più bella teologia resta astrazione, e l’astrazione non ha bisogno di Ma­dre. Senza di lei, la nostra lotta quotidiana resta un «battere l’aria» (cfr. 1 Cor. 9,26). Spesso noi ricorriamo a noi stessi. Alle nostre capa­cità, alle nostre forze, alla nostra intelligenza. Poggiamo la nostra sicurezza nella nostra abilità: nel progettare, nel fare, nell’organizzare, nell’eseguire. La cultura di­venta un nostro prodotto, l’ignoranza una nostra col­pa; il fare una virtù, il non fare una desolazione. Più sovente ricorriamo ad altri. All’opinione degli altri, all’aiuto degli altri, all’appoggio, alla speranza, alla fiducia degli altri. Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode (Sal. 126,1). Nasce l’idolatria. Non quella antica fatta di divinità di creta, di ferro, di bronzo, di oro o di legno. Noi costruiamo idoli più aggiornati, secondo la nostra tec­nica ed inventiva: i titoli, le cariche, i posti, la fama, l’opinione, la gloria, i beni e l’io. Noi li facciamo, li stabiliamo, li delimitiamo; li facciamo parlare, o tacere, li dipingiamo o li bruciamo. Ma essi sono sempre muti. A questi ricorriamo. La celebre «lettera di Geremia» (Bar. 6) sugli idoli, non ha ancora esaurito la sua ironia. La nostra Madre ci libera da tali idoli, se a lei ri­corriamo.

Caterina scrive che il suo viso è indescrivibile. Ma le mani, le descrive bene. Parla delle Mani di Maria, vede il cuore di San Vincenzo, i cuori di Gesù e di Ma­ria. Educata a servire i poveri, ad aiutarli con le «pro­prie mani» tali simbolismi le sono congeniti. Avrà spesso sognato, magari a occhi aperti, le mani di quel Sacerdote che la invitavano ad andare da lui. Mani di San Vincenzo che sollevarono il misero, assolsero il peccatore, distribuirono il Corpo di Cristo. Ora scopre altre Mani, quelle della Madonna. Mani aperte: tese all’incontro, all’amore, all’unione. Pronte ad abbrac­ciare. Sono soprattutto mani piene di grazia. Di là sono maturate le crescite. Qui sono nate le vocazioni, i mar­tiri, i confessori, le vergini, i pastori e i presbiteri. Di là nacquero i santi, quelli famosi e quelli ignoti. Mani che alleviarono ogni sapore di lacrime: della madre afflitta, del figlio addolorato, del presbitero affaticato. Quelle gemme lucenti, quei fasci di raggi… segnano il cammino della Chiesa: illuminano i Concili, i Papi, i vescovi, i Sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici. Tutti sono stati «fasciati» dalla luce di questi raggi. Ci sono però anche gemme spente. «Le gemme da cui non uscivano raggi, sono le grazie che uno si dimentica di chiedere».

Ecco i nostri talentí nascosti nel fazzoletto e sot­terrati. Ecco l’olio mancante delle lampade. Queste grazie non si ricevono, perché non si chiedono. Non le chiediamo: la Madre è molto delicata, dice che non le chiediamo per dimenticanza. Sappiamo bene che a volte non le vogliamo, abbiamo paura di riceverle, per­ché ci potrebbero scomodare. La Madre definisce tutto ciò «dimenticanza del bambino». È un rimprovero che non offende la nostra sensibilità, per la sua delicatezza.

Resta per noi il triste fatto che non le riceviamo. Oppure non riceviamo perché cerchiamo dove non possiamo trovare quanto non possiamo ricevere. Op­pure ci sembra soltanto di non ricevere. Se uno bussa, picchia, insiste, persevera, alla fine il Regno si apre. Ricorriamo soprattutto per questo, prima per il Re­gno, poi per il resto. Da qui comprendiamo che «ricor­rere» vuol dire prima di tutto pregare. Infatti non ci bastano le «pratiche» di pietà, ci è indispensabile la pietà, che è pregare col cuore e nel cuore. Pregare e stare con Dio, non pregare è abbandonare Dio. La Ma­donna vuole gente che preghi. Le nostre difficoltà sono originate dal non pregare, dall’abbandonare il Signore. « … Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non contengono acqua» (Ger. 2, r3). Allora «seguiamo ciò che è vano» (Ger. 2, 5; Sal. 115,8; Os. 9,io). Pregare è preservarsi dal «vano», dalla vanità: non da quella «che si specchia», ma da quella che svuota.

Pregare è seminare bene. La Madonna vuole aiu­tarci a non seminare sulla strada, su luogo sassoso, sulle spine. Ma su terreno buono che fruttifichi, ognuno «se­condo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rom. 12,3). Pregare è costruire sulla roccia, e non sulla sabbia (cfr. Mt. 7,24-27).
Pregare è non interrompere la costruzione a metà, e non sbagliare i calcoli (cfr. Lc 14,28-32), infatti o uno si attacca a Dio o se ne separa (cfr. Mt. 6,24).
Può anche accadere che talvolta i nostri conti risul­tino sbagliati, come quel che deve affrontare un nemico più numeroso (cfr. Lc. 14, 31). La Madonna vuole aiu­tarci a «rifare i conti» da capo e farli quadrare sempre secondo la fede e la carità. Nel ricorrere a Maria, la Chiesa, dai Papi, ai fedeli, ha sperimentato una preghiera speciale definita «il com­pendio di tutto quanto il Vangelo» (Pio XII, citato da Paolo VI nella «Marialis Cultus, 42), cioè il rosario: la corona della Beata Vergine Maria. Paolo VI ricorda «la vigile attenzione e la premurosa sollecitudine» dei Suoi Predecessori verso questa «preghiera contempla­tiva, che è insieme di lode e di supplica». Ma soprat­tutto il rosario è «preghiera evangelica, incentrata nel mistero dell’Incarnazione redentrice… dunque preghiera di orientamento nettamente cristologico. Infatti, il suo elemento caratteristico – la ripetizione litanica del «Rallegrati, Maria» – diviene anch’esso lode incessante a Cristo, termine ultimo dell’annuncio dell’An­gelo e del saluto della madre del Battista: «Benedetto il frutto del tuo seno» (Lc. 1,42). Diremo di più: la ripetizione dell’Ave Maria costituisce l’ordito, sul quale si sviluppa la contemplazione dei misteri» (Paolo VI, Marialis Cultus, n. 46).

Il Papa ricorda che, oltre i due elementi della lode e della implorazione, il rosario fa ribadire l’importanza di un altro elemento essenziale: «la contemplazione». Senza di essa il rosario è corpo senza anima, e la sua recita rischia di divenire meccanica ripetizione di formu­le e di contraddire all’ammonimento di Gesù: «Quan­do pregate, non siate ciarlieri come i pagani, che cre­dono di essere esauditi in ragione della loro loquacità» (Mt. 6,7). Per sua natura la recita del rosario esige un ritmo tranquillo e quasi un indugio pensoso, che favo­riscano nell’orante la meditazione dei misteri della vita del Signore, visti attraverso il cuore di Colei che al Si­gnore fu più vicina, e ne dischiudono le insondabili ricchezze» (Paolo VI, MC, 47). È sufficiente questo ricordo, dottrinale e pastorale insieme, per assicurare la nostra devozione al Rosario. Lo recitiamo in famiglia o da soli, in comunità o in privato, davanti al tabernacolo o dove possiamo. Reci­tarlo è almeno un dovere, trascurarlo è almeno insi­pienza, osteggiarlo è pesante leggerezza di spirito. Lo recitiamo quindi non per esclusivismo devozio­nale, né perché intendiamo alterare le sue proporzioni, ma perché «è una preghiera eccellente, nei riguardi della quale… il fedele deve sentirsi serenamente libero, sollecitato a recitarlo, in composta tranquillità, dalla sua intrinseca bellezza» (Paolo VI, MC, 55).

«Ricorriamo a Voi…» – Come?
Con grande fiducia e con totale abbandono, per far sì che la parola di Dio fruttifichi in noi, e non scivoli via come su duro cemento. Eppure chi può dire di aver se­minato solo e sempre sulla buona terra? Nessuno ha mai scoperto zizzania nel suo campo? Perché – ci do­mandiamo anche noi – il Padrone non ha mietuto su­bito la zizzania? (cfr. Mt. 13,24-30). Perché noi siamo un po’ zizzania, un po’ buon grano. Oggi produciamo il cento, domani seminiamo sulla roccia. Oggi dicia­mo: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Giov. i1, 16), domani diciamo: «quell’uomo, io non l’ho mai conosciuto» (cfr. Giov. 18,17). Oggi pensiamo: «Ades­so sì che abbiamo capito, ora parli chiaro» (Giov. 16, 29), domani si avvererà su di noi l’altra parola: «Vi disperderete ciascuno per proprio conto e mi lascerete solo» (Giov. 16,31). Ossia: «Oggi confessi i tuoi pec­cati e domani continui di nuovo ciò che oggi hai con­fessato. Ora proponi di stare in guardia, e dopo un’ora operi come se non avessi proposto nulla» (Imitazione di Cristo 1,22,6).

Ricorriamo ai lei per presentare la nostra debolezza, le nostre fragilità quotidiane (cfr. Lc. 17,3-4). È questo un aspetto importante del nostro portare «tutti i giorni la nostra croce» Lc. 27,3-4,. In questo continuo ricor­rere, infatti, si nasconde un aspetto misterioso della fede, non facilmente traducibile, ma chiaramente intui­bile nel suo giusto senso: «Mi vanterò quindi ben vo­lentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la po­tenza di Cristo… Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor. 12, 9s). Dio infatti «non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e possa vivere» (Ez. 33-11). Ma questa esperienza ci fa riporre tutto il nostro appoggio nella grazia di Dio, nel soccorso ma­terno di Maria, producendo la vera umiltà. Il male infatti viene da noi e non da Dio: «Nessuno quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria con­cupiscenza che lo attrae e lo seduce» (Giac. 1,r3-r4; cfr. i Cor. 10,13; Rom. 7,8-io). Così sappiamo che non possiamo menar vanto di nulla (cfr. Rom. 3,27; 2,17) se non «nella speranza della gloria di Dio» (Rom. 5,2). Chi sono ancora questi noi? San Paolo ci insegna una grande dottrina; noi siamo coloro per i quali Cristo si è dato alla morte! Ma questi noi hanno quattro attributi che ci qualificano: peccatori, empi, deboli, nemici (Rom. 5,6-11). «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è mor­to per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (Rom. 5,8-9). E noi «eravamo peccatori» non solo prima del Battesimo, ma purtroppo anche dopo. Cristo Gesù è morto anche per questi peccati, perché «laddo­ve è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5,20). Spontaneamente sentiamo di poter aggiun­gere con San Paolo «Che diremo dunque? Continuia­mo a restare nel peccato perché abbondi la grazia? È as­surdo!» (Rom. 6,1). Allora noi ricorriamo alla Madonna per far sì che di­ventiamo sempre più «figli della luce» (Giov. 12,36).

Il rovescio della Medaglia
Finora abbiamo contemplato la Medaglia di faccia, nel suo splendore, nella sua gloria. Per brevità, non si è detto neppure tutto. E’ sufficiente per contemplare «quale grande nome» abbbia acquistata la Madre di Dio. Ma dove e come Maria si è acquistata « tale no­me»? Come è diventata così? Noi la pensiamo sovente Regina, Immacolata, Assunta, sempre Vergine, Media­trice e Madre. Questa è la Maria della Gloria. La Me­daglia ci parla anche del momento di fede di Maria, del sua «camminare» qui in terra davanti a Dio. La necessità di far girare la Medaglia, ci fa medi­tare sulla natura stessa del voltarla, del guardare die­tro le quinte, del ricercare il processo che ha portato Maria a «generare il Cristo della Fede. Significa anzitutto che quanto vediamo direttamen­te nasconde un’altra realtà. Maria appare nella Meda­glia circonfusa di gloria, la realtà nascosta dietro la gloria esige da noi un’attenta decifrazione. Abbiamo mai ammirato un capolavoro d’arte? Un Michelan­gelo, un Leonardo, un Tiziano? Si resta incantati. Ma sappiamo il «processo» che l’artista ha usato per por­tare a termine la sua opera? Tale processo infatti non appare, è nascosto. E’ invisibile. Nasconde la fatica, il tormento e gli abbellimenti dell’artista. Prima un di­segno scheletrico, poi un lento colorarsi, un lavoro tremendamente disarmonico, alla fine però c’è una Gio­conda, una Resurrezione, una Creazione. Il rovescio della Medaglia è il lento passaggio del­l’artista Divino sull’anima di Maria. La tela fu prepa­rata fin dall’eternità: «La beata vergine insieme con l’Incarnazione del Verbo Divino, fu predestinata fino dall’eternità quale madre di Dio» (LG, 61). Poi essa genera il Figlio nella carne e nella fede, quel Verbo che fu generato «non da sangue, né da volere della carne, né da volere di uomo» (Giov. 1,13) e che prese carne dalla Beata Vergine Maria. Spesso ignoriamo il lento lavorio del Padre su Maria, perché ci fermiamo subito al risultato, temendo forse di scoprire le tappe della sua fede. Qui si scoprono i passaggi segreti, i momenti non lucenti, quell’andare seminando nelle lacrime e mietendo nella gioia. Il rovescio della Medaglia è la «semina nelle lacrime» (Sai. 125,5). Come Gesù, che divenne schiavo obbediente fino alla morte, e alla morte di Croce. Ma poi ricevette un «nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Filippo. 2,6-11). Il piano divino è sempre così: un diritto e un rovescio, lo svelato e il nascosto, il detto e il non detto. L’aver generato Cristo nella carne, non avrebbe avuto alcuna importanza per Maria, se ella non fosse stata «colei che ha ascoltato la parola di Dio e l’ha messa in pratica» (cfr. Lc. 11,28). Il rovescio della Medaglia ci rivela il come. È già un mistero il dover girare la Medaglia prima ancora di meditare il suo contenuto. Il doverla voltare è già un profondo messaggio. Girare o voltare, andare a fondo, non stare in superficie, superare l’umano, guar­dare oltre il visto, ascoltare oltre il sentito, percepire ol­tre il detto: è uno dei dinamismi più intimi della fede. Quel procedimento che fa comprendere sia «le cose ter­restri che le celesti» (Giov. 3,12), che aiuta a scoprire «una sapienza, ma una sapienza che non è di questo mondo… parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta» (I Cor. 2,6-7). È un aspetto del « Grazie, Padre, che hai rivelato queste cose ai pic­coli» (Mt. 11,25), Qui il saggio è stolto, e lo stolto è saggio (cfr. I Cor. 1,17-31). Per capire, occorre imitare Maria che «serbava tutte queste cose meditan­dole nel suo cuore« (LC 2,19; 3.51). Maria è stata sem­pre in «ascolto», sempre attenta, sempre sensibile. Dover meditare su simboli o figure è indice di lin­guaggio particolare. È un sistema che richiede decifra­zione mediante la sapienza che viene da Dio. Gesù stes­so parla questo linguaggio. Noi crediamo a volte, di capire le sue parole, ma non afferriamo il linguaggio. Vediamo i segni e ne restiamo abbagliati. Come il po­polo che lo segue, dopo la moltiplicazione dei pani: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Giov. 6,26). Vediamo i segni, ma non andiamo «oltre». Allora anche i segni possono diventare non momenti di luce, ma momenti di tenebre. Il rovescio della medaglia va contemplato e inqua­drato secondo questi tipi di riflessione. La caratteristi­ca propria di tale metodo di comunicazione è la sua esi­genza, per la sua polivalenza, a guardare «oltre» , a sentire «più a fondo». Altrimenti potrebbe succedere che gli occhi, guardando, non vedano, e gli orecchi, sentendo, non ascoltino. Il suo nuovo linguaggio proviene sì dai simboli presi a sé, ma soprattutto dalla loro relazione reciproca che permette di costruire nuovi campi di riflessione. Come quando, con alcuni termini congiunti reciprocamente, noi stabiliamo delle attrazioni. Allora i termini o i sim­boli (noi, Voi, ricorrere, un’M, una croce) composti nel modo dovuto, ci danno un volume di fede, uno spazio all’interno del quale Dio si rivela a noi, e noi tendiamo a Dio. Ecco perché la Medaglia, e soprattutto il suo rove­scio, è ancora un mondo da scoprire. È piuttosto ele­mentare la comprensione dei singoli termini o simboli, è più misteriosa la loro relazione interna. Ma scoprire il loro «linguaggio globale» è il punto di arrivo neces­sario del nostro meditare e del nostro pregare.

M (Emme) come Madre
Non abbiamo bisogno di ricordare i punti della fede sulla Maternità divina di Maria. È un cardine della ri­velazione ormai ben saldo. Si è consolidato con un ini­zio eterno nella mente di Dio, concretizzato all’Annun­cio dell’Angelo, completato alla Croce, sviluppato e chiarito lungo i secoli, dal Concilio di Efeso al Vatica­no 11, attraverso la liturgia: «Veneriamo la gloriosa e sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Si­gnore Gesù Cristo» (Preghiera Euc. 1). Molti hanno letto il rovescio della Medaglia, inter­pretando la M come Maria. Meglio dar ragione a chi legge «Madre», e nella Croce, più che una croce, il segno +, inizio di Cristo. Madre di Cristo. L’amore o la devozione tuttavia ha spesso occhi acuti, se vi ha letto una Croce, «infatti io ritenni di non sa­pere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor. 2,2). Non solo, ma San Paolo iden­tifica i «nemici della croce di Cristo» (Fil. 3,18) con i nemici di Cristo stesso. La Madonna dunque ci dice che è la Madre di Gesù Cristo. La Madre di Cristo Crocifisso. È qui che essa lo ha generato veramente nella fede: alla Croce. Ha liberamente e volontariamente offerto il suo Figlio al Padre per la redenzione del mondo. Essere Madre, per Maria, indica immediatamente una relazione al Figlio, non soltanto nella generazione della carne (esclusivamente sua), ma soprattutto nel­l’averlo «dato» (cfr. Giov. 3,16) a noi, insieme con il Padre. Il Padre lo ha dato e sacrificato per noi secondo il suo Amore infinito, Maria lo ha offerto per noi se­condo il suo amore limitato e creato, ma pur sempre altissimo e irraggiungibile. La «vicinanza di Maria alla croce» non indica sol­tanto vicinanza fisica, ma anche partecipazione al mi­stero della croce, cioè al mistero della salvezza. Ecco la Corredentrice benevolmente scelta dal Padre. In que­sto contesto il discepolo la riceve come Madre, e la Madre riceve il discepolo come figlio. Maria diventa così anche la Madre della nuova comunità messianica, salvata dal Figlio con il suo Sangue. Comprendere il dinamismo di questo mistero, sia a livello psicologico, sia specialmente a livello di fede, e uno dei doni più delicati e più scelti dello Spirito, al quale dobbiamo incessantemente chiederlo. Scoprire l’impatto di queste affermazioni nel mondo affettivo dal Cuore Immacolato di Maria di Nazareth, è scoprire il velo nascosto, con cui il Padre ha spezzato di dolore il cuore della Madre. Ecco la «Madre dei dolori», la «Regina dei Martiri », la «Vergine Addolorata». Tutto ciò ci viene meglio illustrato dalla rappresenta­zione dei due Cuori. Che cosa vuol dirci la Madonna, facendo rappresentare il suo Cuore con quello di Ge­sù? Il dolore di ciascuno, la sofferenza della Madre e del Figlio: certamente. Più ancora d’unione e l’amore delle loro anime nel loro soffrire. Non è un dolore isolato e reciprocamente distante. Dicono tutto il loro mondo interiore, tutto il loro essere, la loro volontà e intelli­genza, uniti nel fare la volontà del Padre. Non ci può essere unità senza unione. Come il Figlio è unito al Padre ed è uno con il Padre, così il Fighio è unito alla Madre, da fare quasi un cuor solo e un’anima sola. Ciò indica che i due cuori sono allo stesso livello per degnazione del Cuore di Cristo verso la Madre. È il Cuore di Maria che è stato elevato nel Cuore di Cristo. Ecco l’aspetto principale: Cristo eleva il cuore della Madre a sé, come vuole elevare il cuore di ognuno di noi al mistero della sua Passione, Morte e Resur­rezione. Questa è la base, questo è il fondamento, que­sto è il principio. Eppure leggendo bene i Vangeli scopriamo tormenti e separazione, distacchi e rimproveri. Quel giorno che la Madre lo cercava, preoccupata e angosciata, si sente ancora dire: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc. z,49). E San Luca termina con una misteriosa rifles­sione: «Ma essi non compresero le sue parole» « Lc. 2,49). Sì, dogmaticamente le parole di Gesù sono una rivendicazione della sua Figliolanza divina, egli ha Dio per Padre, ha con Lui dei rapporti che oltrepassano quelli della famiglia umana. Esistenzialmente sono uno strazio per il cuore della Madre. Dopo tutto ciò che già è avvenuto dentro di lei, dopo tutto ciò che Dio stesso le ha rivelato… sentirsi dire delle parole che «non capi­sce», dovette essere una tremenda prova. Fu in questi momenti che i loro cuori erano uniti. Noi chiamiamo questa situazione: incomprensione, ma è solo debolezza di linguaggio. Maria non capì le parole del Figlio. Noi ci senti­remmo offesi e frustrati, se affermassimo che «non com­prendiamo le parole di Gesù». Eppure siccome i farisei dicevano di vedere, si sentono dire: «Siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane» (Giov. 9,41). Maria, umilmente, afferma di «non vedere», per quanto vede molto bene. Fu docile, plasmabile, sensi­bile. Pur non avendo bisogno di purificazione, ella spe­rimentò la fede più purificante. E fu obbediente alla parola di Dio, al progetto del Figlio, al piano di sal­vezza. La Madre che sperimentò in sé la tragedia della mor­te del Figlio, è capace di comprendere le nostre grandi e piccole tragedie. I nostri abbandoni, le nostre inca­pacità, la nostra impotenza al bene, il nostro volere e non potere, il nostro tendere e non raggiungere. Ci è presente nella gioia e nelle contraddizioni. Nella pace e nel dolore. Dio l’ha data come Madre anche a noi. Per questo il suo compito è di formare in noi il suo divin Figlio. La sua «maternità» verso di noi è un vero essere ma­dre: ci forma, ci plasma, ci conduce per mano, ci ri­conduce a Dio, ci accompagna nel cammino, ci con­forta, ci dà sollievo e anche gioia. Questa Madre ha nel cuore gli innumerevoli figli generati nel Sangue del Figlio, attraverso ” il battesimo e cresciuti nella Euca­restia. In ogni momento dunque dobbiamo lasciarci con­durre da lei, guidare da lei. Come il suo cuore fu sempre in quello di Gesù, così il nostro deve stare nel cuore della Madre. Perché ciò che avvenne nell’anima e nel cuore di Maria, è simbolo di ciò che «avviene» in tutta la Chiesa.

«Questo globo… rappresenta ogni anima in particolare»
Queste parole non fanno propriamente parte della apparizione della Medaglia, ma la precedono immedia­tamente, e possono essere un altro modo di esprimere la nostra presenza nel cuore di Maria. Sono parole importanti. Ogni anima. Tu ed io. Ognu­no degli altri. Quelli che tu ami e quelli che pensi di non amare: sono tutti, siamo tutti nelle mani e nel cuore della Madre, nel quale le nostre disunioni sfu­mano e diminuiscono a livello di capricci tra fratellini, figli della stessa Madre. Ogni anima è nel cuore di Maria, non per l’oblio, ma per il ricordo materno. Non come un numero, ma come una storia vivente. Quel nostro crederci inutili, dimenticati, senza ruolo, senza importanza, senza virtù: è allora che siamo presenti alla Madre. «Quando siedi e quando ti alzi, quando dormi e quando vegli, quando entri e quando esci» (cfr. Sal. 120). Essa fa da nostro custode: insieme con il Figlio. Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d’Israele (Sal. 120,3-4). Tutto quello che siamo stati e siamo. Il nostro pas­sato e il nostro presente, il futuro lontano e quello vicino. In tutto ciò è presente la Madre. Giacché lei è più vicina a noi, di quanto non lo siamo noi verso di lei. Lei accompagna tutte le nostre azioni, le circo­stanze che le complicano o le semplificano: quelle tristi e quelle gioiose, le oscure e le lucenti. Il nostro pro­predire nella fede e nella virtù è un effetto dell’essere nelle sue mani e nel suo cuore. Non si spaventa nep­pure per i nostri rifiuti temporanei, anzi in quel mo­mento ci tiene più stretti. Ne approfitta per insegnarci concretamente la nostra debolezza e la nostra incapa­cità, per poter poi curarla e guarirla con la strapotenza della Grazia. Siamo nelle sue mani: tutto il nostro cammino. Il nostro correre veloci, il nostro rallentare, il nostro zop­picare, il nostro stare indietro. Essa dà slancio e velo­cità alle pecore agili, fascia e cura quelle zoppicanti. La epopea del salmo io6 ci aiuta a meditare la vicinanza della Madre nelle nostre vicende: Ridusse i fiumi a deserto, a luoghi aridi le fonti d ‘acqua e la terra fertile a palude per la malizia dei suoi abitanti. Ma poi cambiò il deserto in lago e la terra arida in sorgenti d’acqua (Sal. 106,33-35). La vita di ciascuno di noi, nelle mani di Maria, è un’avventura fra la terra e il cielo. È un continuo im­parare, un continuo insegnare; un attendere in Dio, un confidare nel suo santo nome. (Cfr. Sal. 32).

Il Signore è il mio pastore: mon manco di nulla… (Sal. 22,1)
Con lei è più facile dire: «se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me». Se pensiamo che ogni anima è nel cuore di Maria, sarà più consolante ripetere: Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia (Sal. 26,3). Le parole della Madonna richiedono dunque da noi grande fiducia e totale abbandono. Un abbandonarsi nelle sue mani, uno sperare fiducioso e contenuto, un tranquillo riposare nella volontà del Padre, dove l’uma­no crolla. Perché la nostra Madre fa crollare l’umano, dentro e fuori di ognuno, pezzo per pezzo. Non potreb­be essere altrimenti. Essere nelle sue mani significa strap­parci dalle «mani» degli altri. Proprio per gelosia. Infine essere nelle sue mani, significa che non le siamo ignoti, non lontani, non dimenticati. Anzi che tutto il «nostro» è suo. Ogni bene e ogni grazia. An­che ogni croce e ogni tribolazione. La nostra rigenerazione spirituale avviene nel bat­tesimo e nello Spirito (cfr. Giov. 3,g ), cioè nella matu­razione progressiva della fede. Ma la pianta cresce sotto lo sguardo della Madre, è affidata alla sua cura. Tutto quindi lei dispone, per non lasciarci soli nel crescere. Essa infatti vuole che ognuno raggiunga la piena matu­rità di Cristo, accolto nel cuore come bambini. Il regno è dei piccoli. Qui il «sapiente» è accecato dalla sua stessa sapienza, e il «cieco» è illuminato dalla sua cecità. Ogni anima che vuole essere cristiana, non può stare lontano dalle mani e dal cuore di Maria, in particolare i sacerdoti e i religiosi. Il sacerdote riceve ordini sacri che lo fanno differire essenzialmente, non solo di grado, dal sacerdozio comu­ne dei fedeli (LG, 10). In virtù dell’unzione dello Spirito Santo, il sacerdote è marcato «da uno speciale carattere che lo configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa) (PO, 2). Egli è nelle mani di Maria in modo privilegiato. In lei, Madre della Chiesa, il sacerdote trova il modello della propria dedizione a Cristo. Dalle sue mani egli attende quella fede e quell’amore che renderanno frut­tuosa la sua partecipazione umana al sacerdozio del Cristo. E come Maria fu fedele fino alla fine, così egli confida di perseverare nell’opera apostolica a benefi­cio dei fratelli. In lei, trova soprattutto, il modello della unione al Cristo, anzi una via privilegiata. I religiosi e le religiose che hanno consacrato la loro vita alla Chiesa, superano la tensione fra la vita di preghiera e l’azione apostolica, guardando a Maria tutta intenta «all’unica cosa necessaria» e dedita al bisogni degli altri: da Elisabetta, a Cana, con i discepoli a Pen­tecoste. Se la speciale vocazione dei religiosi è di dare testi­monianza al Regno di Dio, la vita terrena di Maria fu la testimonianza più perfetta al regno del Figlio. I reli­giosi, mediante i loro voti, si mettono a disposizione dei loro fratelli e sorelle, in una più vasta famiglia cri­stiana, sia per un apostolato più libero, sia per una pre­ghiera più efficace, ma soprattutto per essere più uniti al Cristo. Il cuore di Maria, unito a quello di Cristo, è il mo­dello anche di questa consacrazione. Di questo mistero di unione alla missione di Cristo, che fu soprattutto olo­causto di volontà: «Per questo entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrifici né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà». Ma l’autore dell’epistola agli Ebrei, aggiunge subito dopo la riflessione più importante: «Dopo aver detto prima, non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte…. soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua vo­lontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo» (Ebr. 10, 5-9). Il sacrificio «nuo­vo» è quello della volontà, del fare ciò che Cristo ha fatto e non ha fatto; del come si è rivelato e del come non si è rivelato. Il cuore di Maria era con Lui, unito in questa dedi­zione di volontà. I religiosi trovano in Maria, il mo­dello della loro silenziosa immolazione, del loro sacri­ficarsi a goccia a goccia, nella polvere e nell’altare, uniti continuamente al sacrificio e all’opera salvatrice di Cristo. Nel silenzio esterno e interno, nell’adorazione unificante, nell’azione di evangelizzazione a beneficio dei «poveri di Dio».

Autore: p. Italo Zedde, C.M.