Suor Rosalia, o meglio Giovanna Maria Rendu, nacque a Confort nella Savoia, vicino a Gex, Diocesi di Annecy. I coniugi Rendu, Giovanni Antonio e Maria Anna Laracine, erano coltivatori diretti. Possedevano una cascina circondata da terre coltivabili che producevano piuttosto bene e garantivano una certa agiatezza alla famiglia. I Rendu erano profondamente religiosi, onesti, grandi lavoratori; solidali verso chi era nel bisogno. La Rivoluzione Francese del 1789 portava spesso, verso questa zona periferica della Francia, varie persone costrette alla fuga, appartenenti quasi tutte al clero o alla nobiltà. I Rendu erano ben consapevoli che, nell’accogliere anche una sola di queste persone, sottoscrivevano la propria condanna a morte. Ma per loro valeva prima di tutto la carità. In questo luogo, sufficientemente tranquillo, c’era posto per tutti e, soprattutto, ce n’era per farvi crescere una famiglia felice. La prima ad arrivare nella cascina dei Rendu fu proprio Giovanna Maria, il 9 settembre 1786. Nel 1788, giunse Maria Claudia; nel 1793 fu la volta di Giovanna Antonietta e, infine, nel 1796, di Giovanna Francesca. Purtroppo per quest’ultima i sorrisi e le carezze paterne non durarono a lungo perché il papà morì due mesi dopo la sua nascita, il 12 maggio 1796 a soli 33 anni. Anche i baci della mamma finirono presto perché la piccola, a quattro mesi, preferì andare a raggiungere il papà che aveva appena conosciuto. Quando il babbo e la sorellina morirono, Giovanna aveva solo dieci anni. Come visse quella tragedia familiare? Non ci sono notizie in proposito, ma quella duplice ferita ebbe certamente un’incidenza profonda che l’accompagnò per tutta la vita. Giovanna Maria fu battezzata il giorno stesso della sua nascita. Suo padrino fu il Padre Giacomo Andrea Emery, nativo di Gex, grande amico del nonno. Per molti anni egli fu un valido punto di riferimento per Giovanna Maria; sarà lui ad aiutarla quando, a soli quindici anni, vorrà seguire la chiamata di consacrazione a Dio e ai Poveri, sarà ancora lui a favorire la crescita nella sua vita spirituale e a sostenerla nel faticoso programma di carità che Dio le andava mettendo tra le mani.
Giovanna visse spensierata gli anni dell’ infanzia, circondata dall’affetto dei suoi cari. “Voglio fare tutte le cattiverie possibili…”. Questo il programma di una bambina di sette-otto anni, un programma che prende forza proprio da quel verbo “voglio”, detto con convinzione e, perché no, con una certa compiacenza. Forte della sua presunta autorità di primogenita, costringeva le sorelline a fare le spese delle sue monellerie. Il Visconte Armando De Melun, stretto collaboratore di Suor Rosalia per venti anni e primo biografo della Suora, nel suo libro “Vie de la Soeur Rosalie Rendu” scrive: “La bambina era vivace, birichina, sempre in movimento, con lo sguardo penetrante e la fisionomia furbetta. Era capricciosa, volitiva come lo sono tutti i bambini a quell’età, e cercava, diceva lei, di commettere tutte le cattiverie possibili per non farne più quando sarebbe diventata grande. E così faceva dispetti alle sorelline gettando le loro bambole nell’orto dei vicini”. La vivacità di Giovanna mal sopportava l’idea di fermarsi a leggere, a scrivere, a fare operazioni aritmetiche. Sapeva inventare facilmente ottime scuse per aggirare l’ostacolo. Giovanna, dunque, era bravissima nel fare i capricci. Conosceva molto bene le occasioni e i modi per far piangere le sorelle che aveva reso succubi delle sue prepotenze. La mamma accorreva ai loro pianti e cercava di mettere pace tra le contendenti, una pace che però durava poco. Minacciare un castigo alla più grande? Non era facile, perché Giovanna conosceva molto bene anche la tecnica del ricatto. “Se tu mi punisci, io dirò a tutti che Pietro non è Pietro” disse un giorno a sua madre. La mamma dovette sentire il cuore battere all’impazzata. Pietro era il giardiniere arrivato da poco nella famiglia Rendu. Giovanna l’aveva guardato mentre lavorava; non sembrava troppo pratico del suo mestiere. Forse la bambina aveva percepito che in questo signore, dall’aria mansueta e distinta, si nascondeva qualcosa di misterioso. Una notte aveva sentito un brusio vicino alla sua camera; per nulla impaurita, si era avvicinata alla tenda che separava le due stanze ed aveva visto Pietro che celebrava la Messa. Mille interrogativi cominciarono a frullare nella sua testolina di bambina di sette anni. Capì che doveva tenere il segreto per sé, o meglio, riuscì a tenerlo fino al giorno in cui il castigo minacciato stava per tramutarsi in realtà. Superato lo choc, la mamma capì che con la sua piccola Giovanna doveva parlare come se fosse un’adulta: “No, Pietro non è un giardiniere, è il Vescovo di Annecy. Tu sai, Giovanna, che in Francia c’è la Rivoluzione, che tanta gente muore ogni giorno perché non la pensa come i Rivoluzionari, che i Sacerdoti sono in pericolo di vita solo perché vogliono essere fedeli a Gesù e vivere come Egli ci ha insegnato. E allora si nascondono per sfuggire alla morte. Pietro è uno di questi”. Questo discorso dovette fare una profonda impressione nell’animo di Giovanna. All’esterno sembrava cambiato poco o niente. La bambina continuava a fare le sue birichinate: i soliti dispetti, la solita poca voglia di stare sui libri e sui quaderni, la solita allegria e spensieratezza, le solite corse pazze all’aria libera e lungo le dorsali delle sue montagne. Ma, dentro, c’era qualcosa di veramente nuovo che stava facendosi largo. Cominciò a guardare attentamente quegli strani contadini che portavano al braccio la cesta dei loro prodotti agricoli e che si fermavano a parlare con la mamma. Si chiedeva se anche loro erano come Pietro. Uno di questi signori, che arrivava in casa Rendu ora vestito da contadino, ora da mendicante, ora da straniero di passaggio, veniva più spesso degli altri per preparare Giovanna alla Prima Comunione. La ricevette in un giorno imprecisato, quando aveva circa otto anni, senza nessuna pubblicità, in una cantina semibuia distante circa 150 metri dalla casa. Forse proprio per quell’aria di mistero che l’aveva accompagnato, Giovanna conservò sempre un ricordo molto intenso di quel giorno. Sentiva che Dio le aveva parlato in un modo nuovo.
La bambina di ieri era arrivata ormai alle soglie dell’adolescenza; capiva che era giunto il tempo di dare una svolta alla sua vita. Giovanna pensò di rivolgersi ad una certa Suor Susanna, Figlia della Carità e Superiora dell’ospedale di Gex; non l’aveva mai vista, ma sapeva che era amica di sua madre. La pregò di accompagnarla da lei. La mamma aderì al desiderio della figlia. Quando vide la grande cornetta, Giovanna rimase incantata e disse alla mamma: “Questa cornetta mi piace proprio e me la metterò”. Quella cornetta e quel servizio che le Figlie della Carità svolgevano con tanto amore presso i malati erano diventati ormai un pensiero fisso. Voleva essere una di loro. C’era però la questione dell’età: quindici anni sono troppo pochi per prendere sul serio una decisione del genere. Bisognava aspettare. Suor Susanna la iniziò alla cura dei malati. La ragazza venne così a diretto contatto con la sofferenza fisica e morale. Ne rimase colpita e, nello stesso tempo, si convinse sempre più che Dio la voleva in quel servizio, ma con l’abito e lo spirito delle Figlie della Carità. La giovane supplicò più e più volte la mamma perché la lasciasse andare dove Dio la chiamava. La mamma finì col cedere alla richiesta, ma ad una condizione: voleva un consiglio dal R. Padre Emery che conosceva molto bene Giovanna. Gli scrisse una lettera e la consegnò alla figlia. Una carrozza portò Giovanna lontana dalla sua terra, dai suoi cari, da tutto un vissuto denso di significato. Partì per non tornare mai più a Confort. Ormai le Figlie della Carità e la città di Parigi diventavano la sua seconda grande famiglia. Quando il Padre Emery ebbe letto la lettera della signora Rendu, rifletté e pregò a lungo. Illuminato da Dio, non solo non dissuase Giovanna dal fare il passo desiderato, ma le diede tutto il suo sostegno morale e spirituale. Il 25 maggio 1802 Giovanna iniziava il suo Seminario, in Via du Vieux Colombier. Non aveva ancora 16 anni.
Il sogno s’incrina
Molto presto Giovanna, che tutti ormai, chiamavano semplicemente Suor Rendu, dovette fare i conti con qualcosa di inaspettato. Perdette il colorito del volto, la vivacità dello sguardo, la voglia di ridere e di scherzare, la determinazione e il desiderio di fare. Uno stato depressivo stava per impossessarsi di lei? Il Padre Emery, che andava ogni giorno alla Casa Madre delle Figlie della carità per le confessioni, credette opportuno consigliare i Superiori a mandare temporaneamente Giovanna in una casa in cui il contatto con i Poveri le avrebbe certamente giovato.
Liberazione
A ridare entusiasmo e spessore a Suor Rendu furono non solo la comunità delle Suore del sobborgo San Marcello, ma anche i poveri serviti con tanto amore. La giovane Novizia ritrovò presto la gioia di pregare e l’entusiasmo per donarsi. Guardò con occhio attento la nuova realtà. Scrive ancora il De Melun: “Là il povero è più povero che altrove, l’insalubrità dell’aria è più malsana, la malattia più micidiale……..In quelle stradine strette e tortuose, in quelle case in rovina, in quelle camere troppo basse o troppo umide, anche per servire da stalle, intere famiglie vegetavano a terra o su paglia, senz’aria, senza luce, senza calore, senza pane… Non si trovava un bambino che sapesse leggere, una donna che ricordasse le preghiere…C’era tutto da ricostruire…”. In questo ambiente Suor Rendu si trovò a suo agio: poteva vedere i poveri a decine e decine; non li giudicava perché non conosceva il male; sentiva di amarli e non aveva timore di servirli. I poveri intuirono che in quella ragazza c’era qualcosa di indefinibile che incuteva rispetto. Anche all’interno della comunità delle Suore, Suor Rendu trovò il suo spazio vitale. Soprattutto le più anziane erano felicissime per la sua presenza e la sua vivacità. Dopo alcuni mesi nessuna Suora della casa avrebbe voluto vederla partire; la Suor Servente Suor Tardy trovò la soluzione: “Chiederò alla Madre Generale di rimandarcela”! Suor Rendu tornò infatti alcuni mesi dopo con il suo Abito di Figlia della Carità e con un nome nuovo: Suor Rosalia. Sarà il nome con cui ormai la chiameranno tutti.
Va’ al largo…
La prima tappa di Suor Rosalia fu un’aula scolastica, senz’altro povera, piccola, forse disadorna, ma quello era un luogo sacro da dove tante bambine cominciavano a costruire un domani migliore. Suor Rosalia non aveva una preparazione adeguata per fare la maestra; aveva però quel qualcosa in più che andava oltre il saper leggere e scrivere. Le scolarette imparavano e, a loro volta, insegnavano a genitori o a fratelli analfabeti. Poi l’obbedienza le chiese di andare oltre i muri di un’aula. Suor Rosalia cominciò con l’andare per le strade della città. Conobbe le stradette del quartiere Mouffetard, i molteplici volti dei poveri che, all’angustia delle abitazioni, preferivano stare all’aperto, nonostante i miasmi delle fogne a cielo aperto. Almeno lì c’era più spazio. Dalla voce dei poveri conobbe storie mai ascoltate fino a quel momento, cominciò a leggere al di là delle parole dette. Capì e sentì che quella gente aveva tutto il diritto di lottare per vedere riconosciuti i propri diritti di persone umane. Entrò nelle case dei poveri; ma potevamo chiamarsi case? Spesso, per arrivare alle soffitte dove essi abitavano, doveva salire gradini fatti semplicemente di corda, instabili, con la prospettiva di cadere giù senza scampo. Una volta entrata, Suor Rosalia cercava la persona malata che, in un angolo un po’ più riparato, giaceva a terra, coperta di stracci, febbricitante, senza medicine e senza nemmeno un po’ di brodo. Spesso, soprattutto se si trattava di una donna, c’era intorno a lei un piccolo nugolo di bambini affamati anche loro, senza sorriso e senza spazi. Suor Rosalia, con la parola di conforto e di solidarietà, lasciava lì ciò che poteva servire per la fame e per il freddo di quel giorno, faceva il breve inventario di ciò che c’era e stilava la lunga lista di quello che mancava per vivere. Sarebbe tornata presto con un nuovo carico. Su e giù, ogni giorno, per tante ore al giorno. Seminava parole di conforto e voci di preghiera. La gente aveva cominciato ad apprezzare e ad amare questa Suora che non lasciava mai a casa il suo sorriso.
Prendi la guida del timone
Nel 1815 Suor Rosalia ricevette dai suoi Superiori l’incarico di guidare la piccola Comunità. Oltre a potenziare la visita a domicilio, la nuova Superiora allargò lo spazio delle scuole dando vita a classi che furono subito affollatissime. Per le ragazze poco portate allo studio e per le giovani mamme attivò un laboratorio di cucito, rammendo e ricamo. Fu poi la volta dell’accoglienza dei piccoli del Nido e di quelli della Scuola materna, delle bambine dell’orfanotrofio, degli anziani della casa di riposo. I poveri, che fino a quel momento, Suor Rosalia aveva raggiunto nelle loro case, ora venivano da lei a chiedere aiuto, consiglio, rimedi. Erano veramente tanti. Suor Rosalia prese la risoluzione di non rimandare mai via nessuno. Ma quanti ne arrivavano! Non li sfiorava neppure l’idea che anche Suor Rosalia potesse stancarsi e tanto meno ammalarsi. Invece sì. Quel giorno Suor Rosalia aveva un febbrone da cavallo. Il dottore era stato irremovibile; aveva ordinato: a letto, completo riposo, non allontanarsi dalla camera per nessun motivo. Ad un certo punto qualcuno bussò alla porta. Era un povero che chiedeva di vedere subito Suor Rosalia. La Suora che gli aveva aperto aveva avuto un bel dire ripetendo che la Superiora stava male e non poteva riceverlo. Ma lui non intendeva ragioni: doveva vederla e basta. I toni della voce man mano si erano alzati. Suor Rosalia sentì il baccano; non esitò un momento a disobbedire al medico, anche se i brividi della febbre scuotevano il suo corpo stanco. Tranquillizzò il poveretto, lo ascoltò e gli promise un aiuto. Quando egli se ne fu andato, chiese alla Suora perché non l’aveva chiamata. “Ma il dottore… la febbre… l’imprudenza…”. “Sorella, lasciamo che i dottori facciano il loro mestiere; noi facciamo il nostro”! “Ma, quest’uomo ha reagito con violenza”! “Sì, è vero, ma il povero che ha fame, ha ben altro da fare che studiare le belle maniere. Non bisogna preoccuparsi per una parola vivace, né fermarsi davanti ad un modo di fare un po’ grossolano.
I poveri sono di gran lunga migliori di quanto non sembri”! Tuttavia qualche volta anche Suor Rosalia doveva fare la faccia scura e dire “No”! Un povero, che aveva il vizio di bere, andava spesso a chiederle qualcosa. Suor Rosalia gli rimproverava la sua debolezza; lui faceva promesse formali di non bere più, ma… Un giorno Suor Rosalia se lo trovò di nuovo davanti. Bastava andargli un po’ vicino per sentire che aveva bevuto l’ultimo bicchiere solo pochi minuti prima. “Ho tanto freddo! Mi dia una coperta”! “No, amico mio, te ne ho data una pochi giorni fa. Dove l’hai messa? Non ho nessuna coperta da darti”! Il poveretto voleva ribattere, ma sentiva su di sé lo sguardo severo della Suora e se ne tornò in strada con il freddo fuori e dentro. La notte Suor Rosalia si girò e si rigirò nel letto. Non è che facesse più freddo della notte precedente, ma quella povera coperta che ieri la scaldava, adesso era come se non ci fosse. Aspettò con impazienza l’ora dell’alzata. Chiamò subito una Suora e le disse: “Porti questa coperta alla tale persona, in modo che la prossima notte possiamo dormire tutti e due”!
Se Suor Rosalia aveva mille accorgimenti per aiutare gli adulti poveri, si ritrovava un cuore pieno di tenerezza per i bambini. Quando andando per la strada vedeva qualche bambina, le chiedeva sempre se andava a scuola. Se la risposta era negativa, cercava di incontrare la mamma e cominciava con lei un interrogatorio piuttosto serrato sul perché la bambina non frequentava la scuola. La resistenza iniziale della povera donna finiva col cedere completamente a quello che voleva Suor Rosalia la quale prendeva per mano la bambina e, ipso facto, l’accompagnava in classe dicendo alla Suora: “Mi trovi un posto per questa piccola!” “Ma, Madre, non c’è più spazio”! “Ma è così magrolina, le basta un piccolo posto”! Lo spazio veniva fuori; da quel momento c’era una bambina in più in classe e una di meno per la strada. Per i piccoli del Nido Suor Rosalia non metteva limiti alla sua tenerezza. Al suo apparire il piccolo mondo si metteva in movimento. Chi reclamava un bacio, chi le tirava il vestito, chi la chiamava. Tutti si sentivano in diritto di chiedere un gesto d’affetto. Una volta trovò nell’Asilo Nido un bambino abbandonato; parlava appena. Quel giorno stesso l’avrebbero portato all’Istituto dei Trovatelli. Suor Rosalia volle abbracciarlo come aveva fatto con tutti gli altri. Il bambino, gettandole le braccia al collo, gridò: “Mamma, mamma!” Tutte le carezze, tutti gli sforzi delle altre Suore non riuscirono a staccarlo. “Mi ha chiamato mamma; non posso lasciarlo”! Inutile dire che il piccolo non andò all’Istituto dei Trovatelli e, finché visse, Suor Rosalia fu per lui una madre.
Gente dai mille volti
In quel povero parlatorio di Via dell’Epée de bois si davano appuntamento le situazioni più disparate. C’era il povero miserabile con i suoi stracci e il suo aspetto incolto: non aveva neppure bisogno di parlare perché parlava l’evidenza; c’era la donna con i segni della fame sul volto e c’era il suo bambino sottopeso per denutrizione; c’era il malato e c’era il sano, il buono e il meno buono; il rivoluzionario che reclamava i diritti di uguaglianza e di libertà e l’uomo che non aveva più nemmeno la voce per rivendicarli; la ricca signora con le dita luccicanti di anelli d’oro, ma col cuore in subbuglio; il giovane che voleva fare della sua vita un dono per gli altri e aveva bisogno di una guida per cominciare. Un giorno, nel momento in cui si apriva la porta del suo famoso “quartier generale”, Suor Rosalia intravide un uomo dall’aria dimessa, eppure dignitoso nell’aspetto. Se ne stava lì in un angolo, in silenzio. Lo riconobbe facilmente. Il giorno prima era venuto a presentarle il suo caso sfortunato. Suor Rosalia ne era rimasta commossa e aveva subito pregato una Suora di preparare un bel pacco con tutto quanto poteva essergli utile. Ma come farglielo pervenire senza umiliarlo? Con l’immediatezza di una persona abituata a prendere decisioni rapide, chiamò quel signore al quale disse in fretta: “Può farmi il favore di portare questo pacco ad una famiglia che abita proprio accanto alla sua”? L’uomo sentì la sua speranza venir meno. Aveva creduto alla promessa che la Suora aveva fatto di interessarsi al suo caso; certamente se ne era dimenticata. Ma, quando fu per la strada e lesse l’indirizzo, ebbe un sussulto: sul pacco era scritto esattamente il suo indirizzo.
Di più
Suor Rosalia aveva sempre una finestra aperta sul mondo dei poveri. Cosa doveva fare ancora? La Provvidenza la condusse verso quel “di più” già declamato da San Vincenzo. La mattina del 28 luglio 1830 Suor Rosalia sentì giungere dalla strada un tumulto di gente che si avvicinava sempre più. Vide innalzare freneticamente barricate su cui la sua gente, come impazzita, gridava giustizia, libertà. Era scoppiata una nuova rivoluzione, improvvisa come il lampo, ma covata a lungo nel tempo. Una rivoluzione contro il regime politico del re Carlo X, incapace di accogliere le esigenze di un popolo che reclamava i suoi diritti più elementari. Suor Rosalia capì subito che era chiamata a dare quel di più che ancora non aveva dato. Andò tra la gente, cercò di gridare parole di pace, di calmare i più facinorosi, di portare soccorso dove già il sangue scorreva abbondante. Non si fermò né quel giorno, né i due successivi. Nella casa delle Suore arrivavano persone sempre più numerose. Chiedevano rifugio e protezione per aver salva la vita. Soccorrendo questo o quell’altro ferito, Suor Rosalia captava le notizie circa la lotta rivoluzionaria. Un vecchietto, che aveva beneficato tante volte, le confidò che l’indomani sarebbe stato un giorno di trionfo: i rivoluzionari si sarebbero impadroniti dell’Arcivescovado. Suor Rosalia capì che quell’uomo parlava sul serio. Lasciò il suo posto tra i feriti; corse all’Arcivescovado, riferì all’Arcivescovo quello che aveva saputo e lo costrinse a rifugiarsi, travestito, in casa sua. Il piano dei rivoltosi fu eseguito a puntino, ma l’Arcivescovo ebbe salva la vita. Suor Rosalia non seppe mai che aveva contribuito a realizzare quello che la Madonna aveva detto alla sua Consorella Caterina Labouré nella notte dal 18 al 19 luglio di quell’anno.
Ancora emergenze
Due anni dopo, nel 1832, arrivò un disastro ancora più grande della guerriglia rivoluzionaria: il colera. Suor Rosalia capì che il quartiere Mouffetard era uno di quelli più a rischio per la carenza di igiene, la denutrizione, il sovraffollamento. Pregò, cercò i rimedi, preparò se stessa e le Suore a questa emergenza. Il colera arrivò inesorabile con la sua potenza di morte. Forte delle sue conoscenze infermieristiche, ma ancor più della convinzione che il posto delle Figlie della Carità era là dove si soffriva e si moriva, non si risparmiò. Nessuna delle sue Suore si tirò indietro. Nessuna di loro fu colpita dal morbo. Giunse il 1848. C’era da un po’ di tempo aria di burrasca. Arrivò la rivoluzione, peggiore di quella del 1830. Il popolo voleva condizioni di vita più decorosa, diritti riconosciuti e non solo doveri da compiere, libertà di pensiero e di espressione. Per le strade tornarono le barricate, sempre più alte, sempre più minacciose. Il quartiere Mouffetard divenne incandescente. Si ripeterono le scene cruente del 1830, ma con più ferocia. I nobili e il clero avevano poche vie di scampo. Strappati alle loro abitazioni o inseguiti nella loro fuga, venivano facilmente uccisi. Qualcuno si ricordò che Via dell’Epée de Bois poteva considerarsi una zona neutra e cercò di raggiungerla. Suor Rosalia si stava esponendo troppo, nascondendo tante persone ricercate dalla polizia. Le fu ingiunto di non farlo più, altrimenti avrebbe dovuto risponderne davanti alla legge. I suoi Superiori stessi l’avevano invitata ad una maggiore prudenza. Ma in lei comandava la carità con le sue urgenze. Non per niente il suo motto di Figlia della Carità era: Caritas Christi urget nos. Con le sue idee sulla carità, Suor Rosalia era convinta che occorreva esporsi ancora di più al pericolo, pagare di persona. Anche se era ormai abbastanza avanti negli anni, con quella determinazione che la caratterizzava, non esitò a salire sulle barricate per invitare alla pace. Passava da una barricata all’altra in cerca di feriti da curare o di persone da ritrovare. Nessuno le chiudeva il passo. Anche durante la rivoluzione del 1848, la casa di Suor Rosalia rimase aperta ad ogni richiesta di aiuto. Nelle stesse povere stanze le Suore, sollecitate dalla loro Superiora, si chinavano sui feriti dell’una o dell’altra parte; non importava niente se essi appartenevano ai vincitori o ai vinti del momento. “Una vera figlia di San Vincenzo, diceva Suor Rosalia, non ha mai il diritto di mancare alla carità, qualunque possano esserne le conseguenze”. Passati i giorni terribili della rivoluzione arrivò di nuovo il colera. Le vittime si contavano a centinaia ogni giorno. Suor Rosalia ripeté il copione di solidarietà, senza paura, senza tregua. Le Suore rimasero sulla breccia giorno e notte, senza avere il tempo di riposare o di prendere un pasto sia pure frugale. Ogni momento era importante: c’erano tante persone già con la morte addosso, da ricondurre a Dio, da aiutare a mormorare una preghiera rimasta sopita per tanto tempo, ma in grado di riemergere ancora per chiedere e ottenere il perdono di Dio. L’operato di Suor Rosalia non era sfuggito ai poveri, ma neppure ai potenti. Nel 1852 Napoleone III volle insignire la Suora della Croce della Legione d’onore. Suor Rosalia non aveva mai pensato a riconoscimenti, non aveva mai aspettato onori. Aveva lavorato in nome del solo titolo a cui credeva fortemente: Figlia della Carità. Rimase profondamente scossa dell’onore conferito; non voleva. Dovette accettare, ma solo per obbedienza. Non se ne fregiò mai; nascose quella croce e non volle più saperne nulla.
Anni di intenso lavoro, di notti insonni, di preoccupazioni a non finire. La salute di Suor Rosalia aveva risentito della fatica di giornate senza pause. Si sentiva debole; quasi all’improvviso si accorse che la vista le si era annebbiata. Fu operata per una cataratta. L’intervento peggiorò la situazione. Suor Rosalia si ritrovò cieca o quasi. Fu un colpo duro, ma, nella nuova situazione, seppe vedere la mano di Dio che la preparava per l’ultima purificazione. Trovò più spazio per la preghiera, cercò persone che le leggessero libri di spiritualità, conservò intatto il ricordo dei tanti poveri conosciuti, le loro esigenze di ieri e quelle dell’oggi e si preoccupò di soddisfarle ancora. Tornò al suo parlatorio dove poteva ancora ascoltare storie vecchie e storie nuove, dove poteva dare ancora un consiglio o offrire una soluzione per situazioni difficili. Durante la notte tra il 6 e il 7 febbraio 1856 venne assalita da lunghi brividi di freddo. Non volle chiamare nessuna delle sue Sorelle per non togliere loro le poche ore di sonno. Una violenta broncopolmonite pose termine ad una vita che di pause ne aveva conosciute ben poche. La notizia della morte di Suor Rosalia si sparse in un attimo per tutta Parigi. Una folla numerosa si riversò in Via dell’Epée de Bois. I funerali furono un trionfo. Le persone invitate a tessere il suo elogio funebre lo fecero ricordando la sua infaticabile attività benefica; i suoi collaboratori più stretti rivissero squarci luminosi di vita; i poveri fecero spontaneamente il loro panegirico: “Suor Rosalia era una santa”! E’ stata Beatificata il 9 novembre 2003.
Autore: suor Maddalena Castrica FdC