E sorse un nuovo modo di vivere la consacrazione

Man mano che la Compagnia miracolosamente cresceva di numero e si estendeva, Vincenzo e Luisa avvertivano il bisogno di darle norme più esigenti. La disciplina dei primi tempi non aveva il rigore che ebbe più tardi. Nei primi mesi, forse in tutto il primo anno, la regola del silenzio non era praticata. Le visite alla famiglia in occasione di un matrimonio o per altri motivi, si accordavano facilmente. Giacomina, Margherita, Barbara, che erano di Saint-Leu, andarono alle nozze dei loro fratelli. Barbara ne ritornò scossa nella sua vocazione. Altrove si legge: Enrichetta è ancora a casa sua, oltrepassando il limite stabilito. Queste mancanze portarono a una maggiore inflessibilità nel concedere i permessi di recarsi in famiglia. Si stava delineando la fisionomia del nuovo stile di vita consacrata: contemplativa-attiva, al di fuori dei quadri giuridici vigenti e con strutture proprie: vita comune e fraterna; regole comuni e regolamenti particolari per i vari uffici; intensa vita di pietà, che non contemplava la recita dell’Ufficio Divino, per non sottrarre il tempo al servizio dei poveri; ritiro annuale; silenzio e lettura a tavola ecc… Ma, nonostante queste regolamentazioni, le figlie di San Vincenzo non sono religiose. Chi dice religiosa, dice claustrale – ripete Vincenzo –, e le Figlie della Carità devono poter andare dappertutto. Esse non rimangono chiuse nelle loro case come i membri delle altre comunità femminili; hanno la libertà di uscire, anzi ne hanno il dovere, perché il loro ufficio è di andare a cercare i poveri nelle case. Egli, però, teme che le sue figlie possano aspirare alla vita claustrale, ritenendola più perfetta, perciò le ammonisce di frequente e con forza:

Lasciate da parte la grandezza delle religiose. Stimatele molto, ma non cercate di frequentarle: non già che l’avvicinarle non sia buono e ottimo, ma la comunicazione con il loro spirito non vi si addice.

Dall’altro lato esalta la bellezza e le esigenze proprie della vocazione delle Figlie della Carità:

Anche voi, figlie mie, siete chiamate ad uno stato di perfezione, come i religiosi di ogni ordine. Non c’è nessuna persona che sia immersa nel mondo come una Figlia della Carità e abbia tante occasioni di perdersi quanto voi, sorelle. Perciò è necessario che siate più virtuose delle religiose. E se le religiose devono avere un grado di perfezione, le Figlie della Carità ne devono avere due, perché, se non sono virtuose, corrono un gran pericolo di perdersi.

Sembra che san Vincenzo non abbia stima delle religiose; in realtà, egli non solo le apprezza e dirige spiritualmente le Visitandine, ma spesso per indicare alle sue figlie il modo radicale di praticare questa o quella virtù, fa riferimento alle religiose e non teme di dire:

Dovete avere la virtù delle orsoline, perché fate quello che loro fanno; dovete avere anche le virtù delle religiose dell’Hôtel-Dieu, quelle delle carmelitane e delle suore di Santa Maria; e in generale le virtù convenienti e necessarie a tutte le compagnie dedite al servizio di Dio. È lui che vi chiede tutto questo.

In effetti, le sue raccomandazioni a non frequentare le claustrali e a non imitarne le abitudini sono ispirate dal fatto che la vita consacrata del XVII secolo, a motivo della rigida clausura, è incompatibile con il servizio dei poveri. Per questo egli moltiplica le precauzioni: niente nella casa, dove abitano le Figlie della Carità, né gli abiti, né il linguaggio, deve richiamare il chiostro; la superiora non sarà chiamata madre, ma suor servente; le loro abitazioni: case e non conventi; il loro periodo di formazione: seminario e non noviziato; non sarà cambiato il nome alle giovani che entrano tra le Figlie della Carità e si proibirà loro di mettersi sotto la direzione dei religiosi.Lo stesso abbigliamento è oggetto di attenzioni. Nel regolamento del 1645 è detto che esse “sono vestite tutte allo stesso modo, alla contadina”. Non si tratta di un abito religioso; però san Vincenzo esige l’uniformità. Egli è convinto che “ciò che in un corpo morale forma l’unione è l’uniformità”: perciò la richiede nell’osservanza del regolamento, nel modo di parlare, di operare, e anche nel vestire, indossando l’abito delle contadinelle dei sobborghi di Parigi. Significativa questa lettera di santa Luisa a padre Portail:

Padre Vincenzo teme grandemente e con ragione per il piccolo velo, benché io gli abbia fatto parecchie volte la proposta non di un velo – che è del tutto da evitare –, ma di qualche cosa che possa coprire un poco il volto dal gran freddo e dal gran caldo. Per questo egli ha permesso che le suore portino una cornetta di tela bianca sul capo in quelle necessità, ma quanto al color nero, oh, no, padre, non è da farsi.

Non mancano gli abusi. Nel corso di una sua conferenza Vincenzo riferisce di aver ricevuto una lettera, in cui lo si informa che una suora ha comprato un cappuccio senza permesso e che se ne serve.

Vi pare bello vedere quella suora con la sua compagna: l’una con la solita cuffia e l’altra con un cappuccio? Se non fossimo rigorosi in questo, le vedreste ora con un abito fatto in un modo, ora in un altro, con biancheria più fine, con un’acconciatura più graziosa, con i capelli tirati un po’ in fuori. Insomma, non standovi attenti, non si vedrebbe più uniformità; e sarebbe la rovina della Comunità.

In merito afferma con forza che “se qualcuna ama la singolarità, non è più Figlia della Carità, ma è figlia dell’orgoglio”. Per favorire l’uniformità e avere stoffa uguale e dello stesso colore, Vincenzo e Luisa esigono che nessuna si procuri personalmente gli abiti. Le suore di Parigi e dintorni devono farseli confezionare alla casa madre; quelle che risiedono lontano devono ugualmente rivolgersi alla casa madre per avere indicazioni precise. Nonostante la volontà risoluta di conservare una linea di separazione tra le sue figlie e gli ordini religiosi, Vincenzo preferisce non privarle dei vantaggi spirituali, inerenti alla emissione dei voti di consacrazione. Egli stesso suscita in loro il desiderio, nella conferenza del 19 luglio 1640, con queste parole:

Quanta consolazione ho ricevuto alcuni giorni fa, sorelle mie! Non posso fare a meno di dirvelo. Sentii leggere la formula dei voti dei religiosi ospedalieri italiani, che diceva press’a poco così: “Io tal dei tali faccio voto e prometto a Dio di osservare per tutta la mia vita la povertà, la castità e l’obbedienza e di servire i poveri nostri signori”. Vedete, figlie mie, è cosa assai gradita al nostro buon Dio onorare così le sue membra, i suoi cari poveri.

Le suore, infervorate da queste parole, chiedono se nella Compagnia alcune sorelle possano essere ammesse a consacrarsi interamente al Signore in questo modo. Dai documenti si rileva che, due anni dopo, il 25 marzo 1642 Luisa de Marillac ed altre quattro Figlie della Carità, emisero i voti perpetui privati. Vincenzo, però, non vuole per le sue figlie, né voti perpetui, né voti solenni; preferisce per loro i voti temporanei, semplici, rinnovabili ogni anno. Nei primi tempi, però, non c’è una norma precisa. Infatti ad alcune viene concesso di pronunciare i voti perpetui. Dal 1651 prevale l’uso dei voti annuali. Ecco che cosa scrive santa Luisa a suor Carlotta e suor Francesca di Richelieu:

Per quanto riguarda il vostro desiderio (di fare i voti perpetui) è molto lodevole…; però, in questo bisogna sottomettersi alle direttive dei superiori, che, per ragioni molto importanti, ordinano che basta fare quell’offerta per un anno e rinnovarla ogni anno.

Il 9 giugno, in un’altra lettera inviata alle stesse suore ne dà le motivazioni:

Credo che padre Lamberto, prima di partire, vi abbia dato la consolazione che desiderate, non per tutta la vita, ma solo per un anno, perché Padre Vincenzo ha stabilito così per qualunque suora, e questo è più gradito a Dio di ogni altra cosa, poiché – avendo voi libera la vostra volontà all’inizio dell’anno – potete darla ancora a Dio in modo tutto nuovo.

La questione dei voti poteva creare degli equivoci, perciò san Vincenzo insegna alle suore come rispondere alle domande insidiose dei vescovi e dei parroci:

Se vi conducono a visitare il vescovo del luogo, chiedetegli la benedizione; assicurategli che volete vivere interamente sotto la sua obbedienza e che vi mettete a sua disposizione per il servizio dei poveri, essendo state mandate per questo scopo. Se vi domandasse chi siete o se siete religiose, voi gli direte di no, per grazia di Dio; non perché non stimiate molto le religiose, ma perché, se lo foste, dovreste vivere rinchiuse e, di conseguenza, dire: “Addio servizio dei poveri!”. Ditegli, dunque, che siete povere Figlie della Carità, che vi dedicate al servizio dei poveri, dal quale vi è permesso di ritirarvi e che potete essere anche mandate via. Se egli vi domandasse: “Fate i voti religiosi?”, rispondetegli “No, monsignore, noi ci diamo a Dio vivendo in povertà, castità ed obbedienza, alcune per sempre, altre per un anno.

Le stesse raccomandazioni le ripete ad alcune suore, inviate a Nantes il 12 novembre 1653:

Monsignor vescovo di Nantes va dicendo che siete religiose, perché gli è stato riferito che fate i voti. Se ve ne parla, rispondetegli che non siete religiose. Suor Giovanna, che è la suor servente, gli ha detto: “Monsignore, i voti che noi pronunziamo non ci fanno religiose, perché sono voti semplici e si possono fare ovunque, anche nel mondo”. Infatti, non si può dire che le Figlie della Carità siano religiose, perché non potrebbero essere Figlie della Carità se fossero religiose, dovendo queste ultime stare in clausura.