Suor Bice Fava

Su l’Unione Sarda del 29 dicembre 1963, veniva commemorata qualche giorno dopo la scomparsa la figura di suor Bice Fava: “È scomparsa l’umile, silenziosa e dolce Suor Fava, superiora dell’Asilo Infantile di Oristano, Figlia della Carità esemplare, dopo un anno di continue sofferenze sopportate con pazienza e serenità ed un’agonia durata 10 giorni. Ella ha chiuso la sua vita di religiosa a 74 anni di età e a 50 di professione il 18 dicembre 1963. Ebbe sempre sulle ragazze grande ascendente, derivato dal suo senso soprannaturale, facendosi ubbidire senza imposizione. Ancora oggi le fanciulle diventate madri di famiglia, la ricordano con gratitudine”.

Nata a Napoli il 9 settembre 1889, originaria di Reggio Emilia, apparteneva a distinta famiglia, il cui padre, archivista militare, doveva sovente spostarsi. Era colta, fine e di bella intelligenza. A 23 anni, dopo aver fatto gli esercizi spirituali presso le suore canossiane, che dirigevano a Bologna un istituto per la gioventù, sentì la vocazione. Scorgendo in lei doti non comuni, le canossiane avrebbero voluto farne una consorella, ma lei entrò tra le Figlia della Carità. Fece il postulato all’ospedale di Parma. Nel seminario si fece notare per la sua bontà d’animo: “L’umiltà e la formazione familiare la rendevano amabile”, diceva una delle sue compagne. Le piaceva soprattutto passare inosservata e sinceramente si credeva una buona a nulla. “Tutto mi piaceva – diceva lei stessa parlando del suo seminario ma sentivo talmente la separazione dai miei genitori che arrivai al punto di invidiare le orfane”.

Alla presa d’abito fu mandata all’orfanotrofio di Sassari come insegnante elementare. Poi fu destinata ad Alessandria, dove emise i voti. E nel 1919 all’Asilo Carlo Felice, dove per ben 22 anni svolse la sua missione in mezzo alle fanciulle orfane con mano ferma, dolce e prudente. Esigente per lo studio, alla scuola di suor Del Bo, temprò il suo carattere, trasformando la sua timidezza in saggia prudenza. Formava le fanciulle ad una pietà solida senza sentimentalismi.

Nel 1934 fu nominata superiora dell’Istituto dei Ciechi a Cagliari, dove l’aspettavano delle prove assai dure. Tre anni dopo, nel 1937, i superiori le inviarono una lettera in cui veniva avvertita che, nel giro di tre mesi, le suore avrebbero dovuto lasciare l’istituto. Suor Fava entrò in conflitto, poiché sapeva che la ragione stava “nelle crescenti difficoltà da parte del direttore che abitava nell’istituto” – come ebbe a scrivere la visitatrice suor Zari -, il quale, gerarca fascista, aveva modi autoritari nello stabilire rapporti educativi. Lei invece cercava di stabilire nell’ambiente di quegli infelici un’atmosfera di serenità, interessandosi maternamente ai loro minimi bisogni. Questa lettera dei superiori la mandò in crisi. Come lasciare quei bambini in quelle mani? E d’altra parte era possibile non ubbidire ai superiori? Trovò la scusa. Si recò dall’arcivescovo, mons. Piovella, e spiegò che l’istituto aveva preso un grande sviluppo culturale e, quindi, c’era l’esigenza di suore diplomate e specializzate; e poiché la comunità non aveva soggetti all’altezza, aveva deciso di ritirarsi. Pertanto offriva all’arcivescovo stesso, che aveva fondato una comunità, le Ancelle della Sacra Famiglia, di subentrare a dirigere l’opera. Così fu. Nell’occasione, la carità di suor Fava fu di una squisita generosità, poiché preparò il passaggio in modo che le suore non avessero a dover ricominciare tutto da capo. Durante gli ultimi tre giorni, prima di lasciare la casa, le Figlie della Carità vissero insieme con le Ancelle della Sacra Famiglia per poter fare il passaggio il più dolcemente possibile. Suor Del Bo approfittò della situazione per richiederla come assistente del Sacro Cuore. Ritornò quindi nella sua vecchia casa, finché nel 1940 fu nominata suor servente all’orfanotrofio di Sassari. La situazione non era meno delicata di quella di Cagliari: in due anni vi erano passate due suor serventi e lei era la terza. I problemi erano simili a quelli dell’Istituto dei Ciechi. Il presidente esigeva che le suore andassero a confidargli le difficoltà e a domandargli i permessi riguardanti i loro uffici. Suor Fava non poteva permettere simile abuso ed ebbe molto da soffrire. Terminata la guerra il presidente ne chiese il cambiamento, poiché “non aveva abbastanza dinamismo per opere così importanti!”.

Fu allora mandata all’Asilo San Vincenzo di Oristano, ove rimase per 17 anni in due riprese, sempre come superiora, poiché ebbe un intermezzo di dieci mesi ancora al Sacro Cuore, ed altri due anni all’Asilo Steria di Quartu. Della sua permanenza a Oristano l’Unione Sarda testimonia: “Vi profuse con generosità paziente e benefica le sue migliori energie, prodigandosi per tutte le opere: asilo, poveri, piccolo educandato e specialmente per la parte prediletta del suo cuore, le orfane, dando e spendendo senza contare le sue forze perché quelle amate fanciulle non mancassero di nulla e creando intorno a loro un ambiente di famiglia. La benemerita superiora lascia un vivo rimpianto in quanti hanno avuto modo di apprezzarne le virtù non comuni e specialmente nella popolazione di Oristano”. Ed ancora L’Unione Sarda, qualche giorno dopo la sua morte, titolava: Suor Bice Fava muore rimpianta da tutti. Figura nobile e distinta di donna. Una vita intensa a servizio dei poveri. E poi nel testo dell’articolo si diceva: “Non pensava a risparmiarsi minimamente. Si dava da fare con intensa attività per rendere la vita delle creature, che Dio le aveva affidate, quanto più serena, tranquilla e felice, fosse possibile. Si commuoveva fino alle lacrime davanti ai poveri e alle piccole orfanelle, specialmente quando le era impossibile aiutarle per mancanza di mezzi materiali. Tutte in casa la consideravano come una mamma buona. Ed infatti riuscì a creare un clima di famiglia, interessandosi vivamente alle necessità di tutte le ragazze, ricevendo le loro confidenze e indirizzandole verso la retta via della santità. La sua intensa attività fu stroncata appena un anno da una malattia inesorabile. Ma anche dal suo letto di dolore continuava il suo apostolato dando prova di pazienza, di rassegnazione e di coraggiosa e profonda serenità. Era consapevole del male che la consumava inesorabilmente e si preparava giorno per giorno alla morte, ricevendo ogni mattina Gesù Eucaristia. Man mano che il male avanzava e toccava le parti più vitali, le procurava dei dolori spaventosi che la tormentavano quasi continuamente. Eppure nei brevi intervalli di lucidità, ritrovava ancora la forza di sorridere, di ringraziare le consorelle e di pregare.

Spirò serenamente all’alba del 18 dicembre. Mentre la bara, che conteneva le sue spoglie mortali, veniva trasportata fuori dall’asilo dalle consorelle, un pianto sconsolato di bambine e di ragazze ruppe il silenzio doloroso: erano le sue “figlie” che le davano l’estremo addio e la ringraziavano di tutto il bene ricevuto. Nonostante la pioggia che cadeva in continuità, dopo la Messa e le esequie celebrate in cattedrale, dal parroco monsignor Angelo Zonchello, fu accompagnata in cimitero da un imponente corteo, al rito funebre erano presenti mons. Salvatore Isgrò, mons. Raimondo Bonu, dott. G. Cossu e il direttore delle Figlie della Carità della Sardegna, numerose consorelle convenute da tutte le parti dell’isola, guidate dalla visitatrice e una grande folla di fedeli. Mentre ancora il corteo si snodava lentamente sentii i commenti di una povera e umile donnetta del popolo: “Era una santa ci voleva troppo bene. E che begli occhi celesti che aveva”.