Suor Elisa Gotteland nacque a Torino il 1 novembre 1873 da antica e nobile famiglia piemontese, che pare fosse “di casa” alla corte dei Savoia. Fu educata nel collegio delle Dame del Sacro Cuore dove ricevette una solida formazione culturale. La sua famiglia l’aveva introdotta alla vita mondana dell’aristocrazia torinese: ma quel godimento e lusso, che ad un certo punto sconfinava con la noia, finirono per diventare una prigione per il suo carattere vivace ed impulsivo. “Quando ritornava dal ballo o dal teatro, Elisa non esitava a finire la notte coricata sul pavimento come riscatto del piacere imposto. La mattina poi con la complicità della cameriera si recava alla Messa”. Nacque così misteriosamente e quasi per contrasto il desiderio di donarsi pienamente a Dio. Non però attraverso la via contemplativa, come in un primo tempo aveva pensato, bensì attraverso una vita di servizio ai poveri. Quando ne parlò in casa aveva 19 anni ed i suoi credettero che avesse perso il ben dell’intelletto. Sembrava impossibile che una bella ragazza abituata al benessere e al lusso potesse sognare di abbassarsi a una vita di sacrificio e di rinunce. I genitori però ignoravano l’anima della figlia: la sua pietà profonda e lo spirito di abnegazione. Così decisero di cedere al suo “capriccio”. Le suore di San Salvario avrebbero avuto il compito, nella mente dei genitori, di farle intendere per via pratica quale fosse la loro vita e così il “sogno” si sarebbe svuotato da sé. Fu allora affidata per il postulato alla superiora dell’ospedale civile di Piacenza, che seppe ben inquadrare tutta la vitalità di Elisa. Il seminario iniziato a Torino fu terminato a Parigi alla Casa Madre. Qui, vedendo l’ardore delle suore missionarie partire per l’estero, desiderò essere una di loro. Con la presa d’abito fu però mandata all’orfanotrofio femminile di Genova Paverano, ove spese la sua esuberante giovinezza, mantenendo nel cuore il desiderio della missione.
Finalmente i superiori l’accontentarono a metà: la mandarono in quello che una volta era chiamato le petit étranger, la piccola missione estera, ossia la Sardegna. Dapprima fu destinata all’orfanotrofio di Sassari, dove incontrò suor Nicoli come superiora. Questa non le risparmiò alcuna fatica, immergendola nella vita delle orfanelle e nella scuola. La diversità del suo carattere molto focoso ed impulsivo, rispetto a quello calmo e dominato di suor Nicoli, la fecero notevolmente soffrire, perché pensava di non essere compresa dalla superiora. Ma un bel giorno ebbe il coraggio di confidarsi e da quel giorno, sentendosi capita fin nel più profondo dell’animo, poté dispiegare tutti i talenti della sua energica giovialità. Ma ecco che un giorno arrivò anche la sua missione “estera”: nel 1909 fu destinata a La Maddalena, quest’isola nell’isola, dove s’erano impiantate alcune logge massoniche dallo spirito “garibaldino” ed un tempio protestante con un pastore che avrebbe voluto avere il monopolio della cultura religiosa sull’isola.
Le Figlie della Carità, già presenti a La Maddalena a servizio dell’ospedale militare dal 1899, avevano iniziato nel 1903 un asilo ed un laboratorio in una piccola casa. “I primi anni della fondazione furono estremamente penosi; nonostante lo zelo ed il lavoro delle suore la popolazione restava indifferente, le opere vegetavano, la casa era crivellata di debiti”. Quando suor Gotteland, accompagnata da suor Nicoli per “prendere possesso del suo regno”, vide “questa piccola bicocca” le fu evidente che finalmente Dio l’aveva condotta alla sua missione estera. Non si scoraggiò. Aveva il vantaggio di avere appena 36 anni. Appianò con i soldi di famiglia i debiti della casa, che rischiava altrimenti di essere chiusa. Si diede da fare lavorando sodo in prima persona con il dare lezioni di francese e di musica. La cosa era talmente innovativa che attrasse molte giovani. Suor Gotteland decise allora di acquistare un altro lotto di terreno, adiacente la casetta, con il progetto di costruire gradualmente un istituto di grandi dimensioni. In pochi anni, grazie alle sue risorse personali, l’istituto risultò così com’è ora: una grande scalinata culminante con la cappella, e ai due lati i bracci dell’istituto. Questo le pareva il mezzo più adatto per raggiungere lo scopo di conquistare alla Chiesa la gioventù. Fece dare parecchie missioni popolari per sfatare tutte le forme di superstizione e debellare le idee antireligiose e massoniche che si erano infiltrate nella popolazione. Ben presto l’istituto divenne il centro di attrazione per le giovani dell’isola e dei paesi circostanti. Suor Gotteland univa a una mente lucida un senno più che femminile, un cuore grande, una squisita semplicità che ne facevano una personalità ammirata, al punto che i Maddalenini la chiamavano “l’ammiragliessa dell’isola”.
Nel 1928, il segretario della Pubblica Istruzione, di passaggio a La Maddalena, visitò l’istituto e rimase colpito dal gran numero di allieve che lo frequentavano. Propose ed ottenne che la scuola fosse ufficialmente riconosciuta e per suor Gotteland che fosse insignita di una medaglia d’oro con la seguente motivazione: “A suor Maria Elisa Gotteland, superiora dell’Istituto San Vincenzo, in omaggio al suo apostolato di fede e di sacrificio, di carità e d’amore per l’infanzia e per la scuola”. L’istituto era rinomato, al punto che le autorità arrivando sull’isola non mancavano di fare visita all’istituto. Così nel 1922 in visita ci fu la Regina Margherita e nel 1939 i Principi di Piemonte.
Nel 1927 fu accolta nell’istituto la prima orfana, seguita da altre 17 bambine, la maggiore delle quali aveva nove anni e la più piccola quattordici mesi. A poco a poco se ne aggiunsero altre fino ad arrivare a settanta. Le amava tutte, ad una ad una. Per loro si sacrificava senza risparmio. Esse la ricambiavano. La gioia più grande era vedere che trovavano la loro sistemazione nella vita, alcune formando famiglia, altre consacrandosi al Signore. Voleva che l’orfanotrofio fosse una famiglia e non una casa di correzione. Il suo sistema educativo si basava su larghe vedute pratiche: le ragazze dovevano misurarsi con la realtà, per non trovarsi poi a dover fare i conti con la delusione.
Mentre si sviluppava l’orfanotrofio, suor Gotteland iniziò un laboratorio professionale, nel quale vennero accolte fino a 80 giovinette, che vi imparavano tutti i mestieri femminili. I corsi professionali, le scuole e l’orfanotrofio riunivano più di 600 ragazze. I catechismi della parrocchia erano frequentati ogni domenica da un migliaio di fanciulli, divisi in venti classi ben organizzate, di cui erano incaricate le suore aiutate dalle Figlie di Maria.
Visto poi che molti bambini dell’isola pativano per il tracoma e la tubercolosi, dopo pratiche complesse, riuscì a far aprire un dispensario, facendolo affidare ad una suora munita dei diplomi necessari. Ed ugualmente, quando il comune decise di aprire un ospizio per i vecchi, suor Gotteland non esitò ad assumersi questa nuova opera.
Il 10 giugno del 1940 scoppiò la guerra. Su ordine delle autorità si dovette sgombrare l’isola. Il prefetto che conosceva la testa e il cuore di suor Gotteland la nominò ispettrice generale dei profughi. Quando gli avvenimenti permisero il ritorno a La Maddalena il prefetto esclamò: “Nemmeno un generale avrebbe saputo rendermi un servizio così!”. Hanno raccontato di lei le sue compagne: “Rendere felici le sorelle; soffrire e non far soffrire nessuno; essere buona, sempre buona era il suo programma. Non si ripiegava mai sopra se stessa, era tutta per gli altri. Perciò, soffriva quando vedeva qualcuna di noi ricercarsi, risparmiarsi e desiderare la stima o l’approvazione delle creature! Di vedute molto larghe, assai ottimista, nelle sue compagne vedeva le buone qualità più che i difetti, e sapeva apprezzare i loro talenti, le loro virtù e riconoscere i loro sforzi; ma le voleva pronte, attive e generose. Amava le compagne, ma senza grandi manifestazioni esteriori. Carattere rude e franco, non risparmiava loro le verità necessarie. Tuttavia, il suo cuore delicato era sensibilissimo all’indifferenza e alle cattive maniere; specialmente l’ingratitudine la feriva profondamente. E, come tutte le anime grandi, talvolta ebbe molto da soffrire. Tale sofferenza, bisognava indovinarla, perché non la lasciava affatto vedere. Il suo spirito di sopportazione era quasi senza limiti; si adattava a tutti i caratteri, cercava di evitare le suscettibilità, imponeva dolcemente il suo modo di vedere e faceva lei stessa un lavoro che era stato rifiutato o accettato di mala voglia, scusando anche la mancanza di virtù con ragioni che il suo cuore sapeva trovare. Il suo carattere molto vivace talvolta urtava quello di qualche compagna, ma trovava sempre il modo di chiedere perdono. Un atto delicato, un’attenzione, uno sguardo dicevano che tutto era passato e che nel suo cuore non c’era più ombra di risentimento”.
Senza che nessuno se l’aspettasse nel dicembre del 1940 fu colpita da un male improvviso. Portata all’ospedale, dopo essere stata operata subentrarono delle complicazioni che la portarono alla morte. Era il 27 dicembre, la festa di san Giovanni, il discepolo prediletto di Gesù.